00 16/09/2008 10:03
Alcuni stralci dell'opera sulla "teoria della mente bicamerale"
da www.ilpalo.com
Julian Jaynes, “Il crollo della mente bicamerale”, Adelphi
Apprendimento non intenzionale
Esaminiamo l’apprendimento di abilità complesse. E’ stata molto studiata la dattilogratìa, e in generale si è d’accordo, per usare le parole di uno sperimentatore, sulla tesi che «tutti gli adattamenti e le scorciatoie nei metodi furono adottati in modo inconscio, ossia furono trovati dai soggetti dell’apprendimento in modo per nulla intenzionale. I soggetti notarono all’improvviso che stavano facendo certe parti del lavoro in un modo nuovo e migliore»).
Nell’esperimento citato del gettare in aria le monete, abbiamo forse persino scoperto che la coscienza, se presente, impediva l’apprendimento. Questa è una scoperta molto comune nell’apprendimento di abilità, così come lo è, e lo abbiamo visto, nella loro esecuzione. Lasciamo che l’apprendimento proceda senza un intervento eccessivo della nostra coscienza, e tutto sarà fatto in modo molto più spedito ed efficiente. A volte anche troppo, dato che, in abilità complesse come la dattilografia, può capitare di apprendere a battere costantemente «lgi» anziché «gli». Il rimedio consiste nel rovesciare il processo esercitandosi coscientemente nell’errore «lgi », dopo di che, contrariamente all’idea che «val più la pratica della grammatica », l’errore viene eliminato: un fenomeno chiamato pratica negativa.
Anche nelle comuni abilità motorie studiate in laboratorio, come in sistemi complessi di pursuit-rotor o nell’esperimento consistente nel seguire con una matita la traccia di un disegno osservandolo non direttamente ma in uno specchio, i soggetti ai quali si chiedeva di essere molto coscienti dei loro movimenti facevano peggio. Anche gli istruttori di atletica da me interrogati seguono inconsapevolmente tali princìpi verificati in laboratorio quando raccomandano agli atleti da loro allenati di non pensare troppo a ciò che stanno facendo. L’esercizio Zen di apprendere il tiro con l’arco è estremamente esplicito su questo punto: vienè consigliato all’arciere di non pensare a se stesso mentre tira l’arco e scocca la freccia, ma dir liberarsi dalla coscienza di ciò che sta facendo, lasciando che l’arco si tenda da sé e la freccia si liberi da sé dalle dita al momento giusto.
Julian Jaynes, “Il crollo della mente bicamerale”, Adelphi pag. 52
L’apprendimento di soluzioni
L’apprendimento di soluzioni (o apprendimento strumentale o condizionamento operante) è un caso più complesso. Di solito, quando si sta cercando una soluzione a un problema o una via verso una meta, la coscienza svolge una parte considerevole nell’impostare il problema in un certo modo. La coscienza però non è necessaria. Si possono illustrare casi in cui una persona non ha alcuna coscienza né della meta che sta cercando né della soluzione che trova per giungere a tale meta.
Possiamo dimostrarlo con un altro esperimento semplice. Chiediamo a qualcuno di sedersi di fronte a noi e di dire delle parole, tutte quelle che gli vengono in mente, facendo una pausa di due o tre secondi dopo ciascuna di esse per consentirci di scriverla. Se dopo ogni parola plurale (o dopo ogni aggettivo, o parola astratta, o un qualsiasi altro tipo di parola) diciamo «bene » o «giusto » mentre la scriviamo, o un semplice «mmm », oppure sorridiamo, o ripetiamo la parola plurale con piacere, la frequenza dei nomi plurali (o di qualsiasi altro tipo di parola scegliamo) aumenterà significativamente man mano che il soggetto continuerà a dire parole. La cosa importante qui è che il soggetto non è affatto consapevole di imparare qualcosa. Egli non si accorge che sta cercando un modo per fare aumentare i nostri segnali di incoraggiamento, ne e cosciente della sua soluzione di questo problema. Ogni giorno, in tutte le nostre conversazioni, noi istruiamo gli altri e siamo costantemente istruiti da loro in questo modo, senza esserne mai consapevoli.
Un tale apprendimento inconscio non è limitato al comportamento verbale. Agli studenti di una classe di psicologia fu chiesto di fare complimenti a ogni ragazza del college che indossasse abiti rossi. Entro una settimana la mensa universitaria era tutta uno splendore di rosso (e di generale affettuosità), e nessuna ragazza era consapevole di essere stata influenzata. Un’altra classe, una settimana dopo aver sentito una lezione sull’apprendimento e l’addestramento inconsci, sperimentò tali nozioni sul professore. Ogni volta che il docente, durante la lezione, passeggiava verso la parte destra dell’aula, gli studenti gli prestavano un’ attenzione rapita e ridevano rumorosamente alle sue battute. E stato riferito che gli studenti furono in grado di addestrare il professore sino quasi a farlo uscire dall’aula, senza che egli notasse nulla di insolito. [W. Eambert Gardiner, Psychology: A Slory of a Seareh. BrooksCole, Belmont, Ca1., 1970, p. 76]
Julian Jaynes, “Il crollo della mente bicamerale”, Adelphi pag. 55
Intuizioni illuminanti
L’immagine dello scienziato seduto al tavolo da lavoro che affronta i suoi problemi usando coscientemente i procedimenti dell’induzione e della deduzione è altrettanto mitica quanto l’unicorno. Le massime scoperte intellettuali dell’umanità hanno avuto un’origine più misteriosa. Helmholtz disse che le sue idee più felici «si insinuarono spesso nel mio pensiero senza che io ne sospettassi l’importanza ... In altri casi arrivarono improvvisamente, senza alcuno sforzo da parte mia ... Amavano presentarsi alla mia mente specialmente mentre camminavo senza fretta su colline boscose in una giornata di sole!».
E Gauss, riferendosi a un teorema di aritmetica che si era sforzato invano di dimostrare per anni, scrisse che «la soluzione dell’enigma mi si presentò come una folgorazione improvvisa. Io stesso non so dire quale sia stato il filo conduttore che collegò ciò che già sapevo con ciò che rese possibile il mio successo».
E il brillante matematico Poincaré provava uno speciale interesse per il modo in cui faceva le sue scoperte. In una famosa conferenza pronunciata alla Société de
Psvchologie di Parigi, descrisse come partì per un’escursione geologica: «I casi della giornata mi fecero dimenticare il mio lavoro matematico. Giunti a Coutances. prendemmo un omnibus per andare da qualche parte .Nel momento in cui posai il piede sul predellino mi venne l’idea — senza che nulla nei miei pensieri precedenti le avesse apparentemente preparato la via —che le trasformazioni che avevo usato per definire le funzioni fuchsiane erano identiche a quelle della geometria non euclidea!».
Pare che questo fenomeno di intuizioni illuminanti improvvise sia soprattutto evidente proprio nelle scienze più astratte, quelle in cui i materiali da esaminare sono sempre meno soggetti a interferenze da parte dell’esperienza quotidiana. Un intimo amico di Einstein mi ha detto che molte delle sue idee più grandi gli venivano in modo così improvviso mentre stava radendosi che ogni mattina doveva fare molta attenzione quando usava il rasoio per evitare di tagliarsi per la sorpresa. E un ben noto fisico inglese disse una volta a Wolfgang Kòhler: «Nella nostra scienza le grandi scoperte si fanno in tre posti: in autobus, in bagno e a letto».
Il punto essenziale, qui, è che ci sono varie fasi di pensiero creativo: prima una fase di preparazione, in cui il problema viene elaborato in modo cosciente; poi un periodo di incubazione, senza alcuna concentrazione cosciente sul problema; e poi l’illuminazione, che ègiustificata successivamente dalla logica.
Julian Jaynes, “Il crollo della mente bicamerale”, Adelphi pag. 65
LA COSCIENZA
Avendo in tal modo eliminato alcune fra le principali idee errate sulla coscienza, che cosa ci è rimasto? Se la coscienza non è tutte queste cose, se non è così estesa come noi pensiamo, se non è una copia dell’esperienza o il luogo necessario dell’apprendimento, del giudizio e persino del pensiero, che cos’è allora? E mentre scrutiamo tra le macerie polverose dell’ultimo capitolo, sperando come Pigmalione di veder emergere la coscienza pura e incorrotta dai detriti, concediamoci qualche divagazione in attesa che la polvere si posi, parlando di cose diverse.
Metafora e linguaggio
Parliamo della metafora. La proprietà più affascinante del linguaggio è la sua capacità di fare metafore. Ma che affermazione inadeguata! La metafora non èinfatti un mero arzigogolo linguistico marginale, come viene così spesso svilita nei vecchi manuali scolastici di composizione; essa è il fondamento costitutivo stesso del linguaggio. Io intendo qui la metafora nel suo senso più generale: l’uso di un termine proprio di una cosa per descriverne un’altra in conseguenza di una qualche somiglianza esistente fra loro o fra le loro relazioni con altre cose. In una metafora sono dunque sempre presenti due termini: la cosa che dev’essere descritta, che chiamerò metalerendo, e la cosa o relazione usata per delucidarla, che chiamerò metaferente. Una metafora èsempre un metaferente noto che opera su un metaferendo meno noto.
È proprio grazie all’uso della metafora che il linguaggio cresce. La risposta più comune alla domanda «che cos’è? », quando la risposta è difficile o l’esperienza è unica, è «be’, è come... ». In studi di laboratorio, tanto bambini quanto adulti che devono descrivere oggetti (o metaferendi) strani ad altre persone che non possono vederli, usano inetaferenti estesi che, con la ripetizione, finiscono col trovarsi contratti in etichette. È questo il modo principale in cui si forma il vocabolario di una lingua. La grandiosa e vigorosa funzione della metafora è quella di generare nuove componenti della lingua secondo il bisogno, a mano a mano che la cultura umana si fa più complessa.
Poiché, nella nostra breve vita, noi abbracciamo cosi poco della vastità della storia, abbiamo troppo spesso la tendenza a ritenere il linguaggio solido come un dizionario o persistente come il granito anziché vederlo come il mare inquieto e prorompente di metafore che esso è in realtà. In effetti, se consideriamo i mutamenti lessicali che hanno avuto luogo nel corso degli ultimi due o tre millenni e, sulla base dei risultati ottenuti, cerchiamo di prevedere quale sarà la situazione fra vari millenni, ci imbatteremo in un interessante paradosso. Se infatti riusciremo mai a pervenire a una lingua che abbia il potere di esprimere qualsiasi cosa, la metafora non sarà più possibile. In tal caso io non potrò dire che il mio amore è come una rosa rossa, poiché la parola amore si sarà frantumata in migliaia di termini esprimenti le sue mille e mille sfumature, e l’applicazione ogni volta del termine corretto lascerà la rosa metaforicamente morta.
Il lessico del linguaggio è quindi una serie finita di termini che, grazie alla metafora, può estendersi a coprire una serie infinita di circostanze, creando addirittura circostanze nuove.
(La coscienza non potrebbe essere appunto una nuova creazione?).
Julian Jaynes, “Il crollo della mente bicamerale”, Adelphi pag. 71
La comprensione come metafora
Noi stiamo sforzandoci di capire la coscienza, ma che cosa tentiamo realmente di fare quando cerchiamo di capire qualcosa? Come bambini che si sforzano di descrivere oggetti strani, quando cerchiamo di capire una cosa cerchiamo di trovare una metafora per quella cosa. Non una metafora qualsiasi, ma una metafora con qualcosa di più familiare e di più comprensibile alla nostra attenzione. Comprendere una cosa significa pervenire a una metafora per quella cosa, sostituendo ad essa qualcosa di più familiare. E la sensazione di familiarità non è che la sensazione del comprendere.
Varie generazioni fa avremmo forse inteso un temporale come il clangore delle armi di dèi sovrumani impegnati in battaglia. Avremmo ridotto il frastuono che segue al lampo ai ben noti rumori di una battaglia, per esempio. Similmente, oggi, riduciamo una tempesta a varie presunte esperienze con attrito, scintille, spazi vuoti e la fantasia di grandi masse d’aria che si urtano violentemente provocando il frastuono. Nessuna di queste cose esiste veramente come ce la immaginiamo. Le nostre immagini di questi eventi fisici sono non meno lontane dalla realtà dell’immagine di dèi che combattono fra loro. Eppure esse svolgono la funzione di una metafora e ci appaiono familiari, cosicché possiamo dire di capire il temporale.
Così, in altri settori scientifici, diciamo di capire un aspetto della natura quando possiamo dire che esso è simile a un qualche modello teorico che ci è familiare. I
termini teoria e modello, per inciso, sono usati talvolta in modo intercambiabile. In realtà, però, non dovrebbe essere così. Una teoria è una relazione del modello alle cose che il modello vuole rappresentare. Il modello atomico di Bohr è quello di un nucleo circondato da elettroni in movimento su orbite ben definite. Esso assomiglia un po’ alla struttura del sistema solare, la quale è appunto una delle sue fonti metaforiche. La teoria di Bohr era che tutti gli atomi erano simili al suo modello. La teoria, con la scoperta in epoca più recente di nuove particelle e di complessi rapporti interatomici, è risultata erronea. Il modello però rimane. Un modello non è né vero né falso; è tale solo la teoria della sua somiglianza con ciò che esso rappresenta.
Una teoria è dunque una metafora fra un modello e dei dati d’esperienza. E capire è, nella scienza, sentire una somiglianza fra dati complessi e un modello familiare.
Se capire una cosa significa pervenire a una metafora che ce la renda familiare, possiamo vedere che nel comprendere la coscienza ci sarà sempre una difficoltà. Dovrebbe essere infatti immediatamente chiaro che nella nostra esperienza immediata non c’è e non può esserci alcunché di simile all’esperienza immediata stessa. Si può dire perciò che in un certo senso noi non saremo mai in grado di capire la coscienza nello stesso modo in cui possiamo capire le cose di cui siamo coscienti.
La maggior parte degli errori riguardanti la coscienza esaminati poco fa erano errori nell’applicazione di metafore. Della nozione di coscienza come copia dell’esperienza abbiamo detto che essa deriva dalla metafora esplicita di una lavagna di scuola. Ma ovviamente nessuno intende davvero che la coscienza copii l’esperienza; era solo una metafora. E nella nostra analisi abbiamo trovato, naturalmente, che la coscienza non fa nulla di simile.
E persino l’idea implicita in quest’ultima espressione, ossia che la coscienza faccia qualcosa, è anch’essa una metafora: equivale a dire che la coscienza è una persona che si muove in uno spazio fisico e che fa cose, e ciò vale solo se anche «fa» è una metafora. Fare cose, infatti, è un qualche comportamento in un mondo fisico da parte di un corpo vivente. In quale «spazio», inoltre, viene fatto questo «fare» metaforico? (Una parte del polverone comincia a depositarsi). Anche questo «spazio» dev’essere una metafora dello spazio reale. Tutto questo ci fa tornare alla mente la nostra discussione sulla localizzazione della coscienza, che è anch’essa una metafora. La coscienza viene concepita come se fosse una cosa e quindi, come altre cose, deve avere un’ubicazione, e invece, come abbiamo visto in precedenza, essa non l’ha, in senso fisico.
Mi rendo conto che qui il mio ragionamento sta diventando piuttosto denso. Ma prima di arrivare a un terreno più sgombro, vorrei descrivere che cosa intendo designare col termine analogo. Un analogo è un modello, ma un modello di un genere speciale. Non è come un modello scientifico, la cui fonte può essere qualsiasi cosa e il cui fine è quello di fungere da ipotesi di spiegazione o di comprensione. Un analogo è invece generato in ogni punto dalla cosa di cui è un analogo. Un buon esempio è fornito da una carta geografica. Essa non è un modello in senso scientifico, né un modello ipotetico, come l’atòmo di Bohr, per spiegare qualcosa di ignoto, bensì è costruita sulla base di qualcosa che è ben noto, anche se non in modo completo. A ciascuna area di una regione di un territorio è assegnata un’area corrispondente sulla carta, anche se i materiali del paese e della carta sono assolutamente diversi e molti dei caratteri morfologici del paesaggio devono essere esclusi dalla carta. E il rapporto fra l’analogo carta geografica e il paese che essa rappresenta e una metafora.
Julian Jaynes, “Il crollo della mente bicamerale”, Adelphi pag. 77
Conciliazione: il fare nello spazio mentale quel che la narratizzazione fa nel tempo mentale
Ciò che intendo designare col termine conciliazione è essenzialmente il fare nello spazio mentale quel che la narratizzazione fa nel tempo mentale o tempo spazializzato. La conciliazione raccoglie assieme le cose come oggetti coscienti, esattamente come la narratizzazione combina assieme le cose nella forma di una storia. E questa combinazione di elementi in un tutto coerente o probabile viene eseguita secondo regole che si sono formate nella nostra esperienza.
Nella conciliazione noi facciamo selezioni o narratizzazioni compatibili fra loro, esattamente come nella percezione esterna i nuovi stimoli vengono portati in accordo con la concezione interna. Se narratizziamo noi stessi mentre camminiamo lungo un sentiero in un bosco, la successione dei particolari estrapolati è resa automaticamente compatibile con tale passeggiata. Oppure se in una fantasticheria due selezioni o narratizzazioni cominciano a presentarsi nello stesso tempo, vengono fuse assieme o conciliate.
Se ci viene chiesto di pensare contemporaneamente a un pascolo di montagna e a una torre, noi automaticamente conciliamo le due richieste facendo sorgere la torre sul pascolo. Ma se ci viene chiesto di pensare al pascolo di montagna e a un oceano nello stesso tempo, la conciliazione tende a non verificarsi ed è probabile che noi pensiamo prima a una delle due cose e poi all’altra. È possibile combinarle assieme solo per mezzo di una narratizzazione. Questo processo è dunque governato da princìpi di compatibilità, i quali sono princìpi appresi e si fondano sulla struttura del mondo.
Julian Jaynes, “Il crollo della mente bicamerale”, Adelphi pag. 90
Vorrei ora procedere a una breve ricapitolazione per «vedere» dove siamo e in quale direzione la nostra discussione stia procedendo. Abbiamo detto che la coscienza non è una cosa, un deposito o una funzione, ma piuttosto un’operazione. Essa opera per analogia, attraverso la costruzione di un analogo «spazio », con un analogo «io» che è in grado di osservare tale spazio e di muoversi metaforicamente in esso. La coscienza opera su ogni forma di reattività, seleziona da un tutto aspetti pertinenti, che narratizza e concilia fra loro in uno spazio metaforico in cui tali significati possono essere manipolati come cose nello spazio. La mente cosciente è un analogo spaziale del mondo e gli atti mentali sono analoghi di atti corporei. La coscienza opera solo su cose osservabili oggettivamente. O, per esprimerci in un altro modo che riecheggia John Locke, nella coscienza non c’è nulla che non sia un analogo di qualcosa che è già stato nel comportamento.
Questo è stato un capitolo difficile. Spero però di avere indicato a grandi linee, in modo sufficientemente plausibile, che la nozione di coscienza come modello del mondo generato mediante metafore conduce ad alcune deduzioni ben definite e che queste deduzioni sono verificabili nella nostra esperienza cosciente quotidiana. Tutto questo è, ovviamente, solo un inizio, un inizio un po’ grezzo, che spero di sviluppare in un lavoro futuro. Quanto abbiamo detto è però sufficiente per tornare ad affrontare il nostro problema principale dell’origine di tutto ciò, rimandando una più ampia discussione sulla natura della coscienza stessa ad altri capitoli.
Se la coscienza è questa invenzione di un mondo analogale sulla base del linguaggio, un mondo parallelo rispetto al mondo del comportamento, nello stesso senso in cui il mondo matematico è un parallelo rispetto al mondo delle quantità delle cose, che cosa possiamo dire sulla sua origine?
Siamo pervenuti così a un punto molto interessante della nostra discussione, un punto che è in totale contraddizione con tutte le diverse soluzioni del problema dell’origine della coscienza di cui ci siamo occupati nel capitolo introduttivo. Se infatti la coscienza è fondata sul linguaggio, ne segue che essa ha un’origine molto più recente di quanto non si sia supposto finora. La coscienza è posteriore al linguaggio! Le implicazioni di tale posizione sono assai gravi.
Julian Jaynes, “Il crollo della mente bicamerale”, Adelphi pag. 90
Negli uomini dell’Iliade non esistono coscienza soggettiva e mente
Gli uomini dell’Iliade non hanno dunque una propria volontà e certamente non hanno alcuna nozione di libero arbitrio. In effetti l’intero problema della volizione, un problema così difficile, secondo me, per la moderna teoria psicologica, è forse tanto difficile proprio per il fatto che le parole per designare tali fenomeni furono inventate solo così tardi.
Una parola della quale si avverte similmente l’assenza nel linguaggio dell’Iliade è quella per «corpo» nel nostro senso moderno. La parola soma, che nel V secolo a.C. venne a designare il corpo, in Omero è sempre plurale e significa «membra morte» o «cadavere ». Essa è l’opposto di psjche. Ci sono varie parole che designano diverse parti del corpo, e in Omero il riferimento è sempre a tali parti, mai al corpo nella sua totalità. Non sorprende quindi che l’antica arte greca di Micene e del suo periodo presenti l’uomo come un aggregato di membra stranamente costruite, le articolazioni raffigurate in modo inadeguato e il torso quasi separato dai fianchi. È, sul piano dell’immagine, ciò che troviamo ripetutamente in Omero, che parla di mani, di braccia, di òmeri, di piedi, di polpacci e di cosce, descrivendoli come veloci, forti, in rapido moto, ecc., senza alcuna menzione del corpo veduto nel suo complesso.
Ora, tutto questo è molto strano. Se negli uomini dell’Iliade non esistono coscienza soggettiva, mente, anima o volontà, che cos’è che dà inizio a un comportamento?
Julian Jaynes, “Il crollo della mente bicamerale”, Adelphi pag. 97
La religione degli antichi greci
Secondo un’idea tradizionale e generalizzata non ci fu una vera religione in Grecia fino al IV secolo a.C. e gli dèi dei poemi omerici sarebbero semplicemente una «gaia invenzione di poeti », come è stato detto da illustri studiosi.4 Questa idea erronea si deve al fatto che la religione è concepita come un sistema di etica, una sorta di subordinazione a dèi esterni nello sforzo di comportarsi in modo virtuoso. E in effetti in questo senso gli studiosi hanno ragione. Dire però che gli dèi dell’Iliade siano un’invenzione degli autori del poema significa fraintendere completamente il senso degli eventi. I personaggi dell’Iliade non hanno momenti in cui si fermano a riflettere sul da farsi. Non hanno come noi una mente cosciente, e certamente non hanno la facoltà dell’introspezione. Per noi, esseri dotati di soggettività, è impossibile renderci conto in modo adeguato di tale situazione. Quando Agamennone signore di popoli sottrae ad Achille la sua amante, è una dea ad afferrare Achille per la chioma bionda e ad ammonirlo a non colpire Agamennone (I, 197 sgg.). E una dea che sorge poi dalle spume del mare e lo consola nel suo pianto d’ira sulla spiaggia presso le nere navi, è ancora una dea che sussurra a Elena di togliersi dal cuore la nostalgia per la patria lontana, è una dea che avvolge Paride in una nebbia proteggendolo così dall’attacco di Menelao, è un dio che induce Glauco a scambiare le sue armi d’oro per armi di bronzo (VI, 234 sgg.), sono dèi che guidano gli eserciti in battaglia, che parlano a ogni guerriero nei momenti decisivi, che discutono e dicono a Ettore che cosa deve fare, che spronano i guerrieri o li sconfiggono gettando incantesimi su di loro o diffondendo nebbie nel loro campo visivo. Sono gli dèi che danno inizio alle contese fra uomini (IV, 437 sgg.), che sono la vera causa della guerra (III, 164 sgg.) e ne decidono poi la strategia (II, 56 sgg.). E una dea che fa promettere ad Achille che non andrà in guerra, un’altra che lo sollecita ad andare, e un’altra che lo avvolge in un fuoco dorato che sale fino al cielo, e grida attraverso la gola di lui sul campo coperto di sangue verso i troiani, suscitando in loro un panico incontrollabile. Insomma, gli dèi prendono il posto della coscienza.
Le azioni non trovano il loro inizio in piani, ragioni e motivi coscienti, bensì nelle azioni e nei discorsi di dèi. Per un’altra persona che lo osservi, un uomo sembra la causa del proprio comportamento, ma tale non appare a se stesso. Quando, verso la fine della guerra, Achille ricorda ad Agamennone come questi gli ha sottratto la
sua amante, il signore di popoli dichiara: «Non io fui la causa di tale atto ma Zeus e la mia parte e le Eninni che camminano nel buio: furono loro che nell’assemblea gettarono la furiosa ate su di me il giorno che io tolsi arbitrariamente ad Achille la sua preda. Che cosa dunque potevo fare? Gli dèi la vincono sempre» (XIX, 86-90). Che questa non fosse una particolare invenzione di Agamennone per sottrarsi alle sue responsabilità risulta chiaro dalla disponibilità di Achille, che obbedisce anche lui ai suoi dèi, ad accettare senza riserve questa spiegazione. Gli studiosi che, nel commentare questo passo, dicono che il comportamento di Agamennone è diventato «estraneo al suo io », non si spingono molto lontano. Il problema è infatti: qual è la psicologia dell’eroe dell’Iliade? E io sostengo che egli non aveva alcun io.
Il poema stesso non è opera di uomini nel nostro senso. Le sue prime tre parole sono Menin aeide thea, «Canta l’ira, o dea!». E l’intero racconto epico che segue è il canto della dea che l’aedo posseduto «udì» e cantò ai suoi ascoltatori dell’età del ferro fra le rovine del mondo di Agamennone.
Se noi mettiamo da parte tutti i nostri preconcetti sulla poesia e consideriamo il poema come se non avessimo mai sentito parlare prima di poesia, siamo colpiti immediatamente dalla qualità anormale del discorso. Oggi chiamiamo tale qualità «metro». Ma quanto sono diversi questi esametri dalla scansione costante dal miscuglio disordinato di accenti del parlare comune! La funzione del metro in poesia è quella di guidare l’attività elettrica del cervello e quasi certamente di allentare le normali inibizioni emozionali sia del cantore sia dell’ascoltatore. Una cosa simile si verifica quando le voci di schizofrenici parlano in frasi nitmate o in rima. Tranne che per le aggiunte posteriori, quindi, il poema epico stesso non fu composto né ricordato coscientemente, ma fu modificato in momenti successivi e in modo creativo con non più consapevolezza di quella che un pianista ha della sua improvvisazione.
Chi erano dunque questi dèi che muovevano gli uomini come se fossero automi e che cantavano poesia epica attraverso le loro labbra? Erano voci, le cui parole e le cui istruzioni potevano essere udite dagli eroi dell’Iliade così distintamente come le voci udite da certi pazienti epilettici e schizofrenici o come le voci udite da Giovanna d’Arco. Gli dèi erano organizzazioni del sistema nervoso centrale e li si può considerare come personae, nel senso di forti presenze costanti nel tempo, amalgami di immagini parentali o ammonitonie. Il dio è parte dell’uomo, e del tutto coerente con questa concezione è il fatto che gli dèi non escono mai dall’ambito delle leggi naturali. Gli dèi greci, diversamente dal dio ebraico del Genesi, non possono creare qualcosa dal nulla. Nei rapporti fra il dio e l’eroe ci sono le stesse cortesie, emozioni, la stessa opera di convincimento che si riscontrano nei rapporti fra persone. Il dio greco non appare tra scoppi di tuono, non suscita mai soggezione o timone nell’eroe ed è lontanissimo dal dio esageratamente pomposo di Giobbe. Egli semplicemente guida, consiglia e ordina. Né il dio infonde un senso di umiltà o addirittura di amore, e ben poca gratitudine. Anzi, io sostengo che il rapporto fra il dio e l’eroe era simile —essendone di fatto l’antecedente — al referente del rapporto fra Io e Super-io in Freud o del rapporto del sé con l’altro generalizzato di Mead. L’emozione più forte che l’eroe sente nei confronti di un dio è lo sbigottimento o la meraviglia, il genere di emozione che noi sentiamo quando emerge improvvisamente nella nostra mente la soluzione di un problema particolarmente difficile, o che risuona nell’eureka! di Archimede nella vasca da bagno.
Gli dèi sono quelle che noi oggi chiamiamo allucinazioni. Di solito essi sono visti e uditi solo dai particolari eroi cui si rivolgono. A volte si presentano avvolti da una nebbia o emergono dalla spuma del mare o da un fiume, o scendono dal cielo, il che suggerisce che sono preceduti da un’aura visuale. Altre volte, penò, compaiono semplicemente. Di solito si presentano direttamente con la loro identità, spesso come semplici voci, ma a volte assumono l’aspetto di persone molto vicine all’eroe.
Particolarmente interessante sotto questo aspetto è il rapporto di Apollo con Ettore. Nel canto xvi Apollo si presenta a Ettore sotto le sembianze dello zio materno; nel canto xvii come uno dei capi alleati; più avanti nello stesso canto egli assume l’aspetto del suo più caro amico straniero. L’episodio conclusivo del poema si apre con Atena che, dopo aver detto ad Achille di uccidere Ettore, si presenta a quest’ultimo sotto le sembianze del suo amato fratello Deifobo. Prendendolo fiduciosamente per padrino, Ettore sfida Achille, chiede a Deifobo un’altra lancia, si volge e non vede nulla. Noi diremmo che ha avuto un’allucinazione. Lo stesso vale per Achille. La guerra di Troia fu diretta da allucinazioni. E i guerrieri che venivano comandati in tal modo non erano affatto simili a noi. Erano nobili automi che non sapevano quel che facevano.
Julian Jaynes, “Il crollo della mente bicamerale”, Adelphi pag. 101
L’Iliade è un poema che parla di azione ed è pieno di azione: un’azione costante. Esso concerne in effetti gli atti di Achille e le loro conseguenze, non la sua mente. E quanto agli dèi, tanto gli autori dell’Iliade quanto i suoi personaggi sono tutti d’accordo nell’accettare questo mondo governato divinamente. Dire che gli dèi sono un artificio poetico sarebbe come dire che Giovanna d’Arco parlò all’Inquisizione delle sue voci solo per dare un’immagine più efficace della situazione a coloro che si accingevano a condannarla.
Non è che prima compaiano le vaghe idee generali della causalità psicologica e poi il poeta dia loro una forma visiva concreta inventando gli dèi. È invece, come vedremo più avanti in questo libro, l’esatto contrario. E quando viene suggerito che i sentimenti interioni di forza o gli ammonimenti interiori o le perdite di giudizio sono i germi da cui si sviluppò il meccanismo degli dèi, io replico che la verità è esattamente opposta, ossia che la presenza di voci a cui si doveva obbedire fu l’assoluta condizione preliminare alla fase cosciente della mente in cui il responsabile è il sé, che può discutere con se stesso, che può ordinare e dirigere, e la cui creazione è il prodotto della cultura. In un certo senso, noi siamo diventati i nostri stessi dèi.
Obiezione: Se fosse esistita una tale mente bicamerale, ci si potrebbe attendere un caos estremo, in cui ciascuno seguiva le proprie allucinazioni private. L’unico modo in cui potrebbe esistere una civiltà bicamerale sarebbe quello di una gerarchia rigida, con un numero ridotto di uomini che hanno esperienze allucinatorie di voci di autorità superiori, autorità soggette a loro volta alle voci allucinatorie di altre ancora maggiori, sino ad arrivare ai re e ai loro pari, che ascoltano direttamente nelle loro allucinazioni le voci degli dèi. Ma l’Iliade non presenta alcun quadro del genere, e si concentra direttamente sull’individuo eroico.
Risposta: Questa è un’obiezione molto efficace che mi mise in imbarazzo per lungo tempo, specialmente quando studiai la storia di altre civiltà bicamerali nelle quali non c’era quella libertà di azione individuale che esisteva invece nel mondo sociale dell’Iliade.
Le tessere mancanti nel puzzle risultano essere le ben note tavolette nella Lineare B rinvenute a Cnosso, Micene e Pilo. Esse furono scritte direttamente in quello che io chiamo il periodo bicamerale. Note da molto tempo, hanno resistito tenacemente agli sforzi più vigorosi dei cnittografi. Recentemente si è potuto però decifrarle, ed è stato dimostrato che contengono una scrittura sillabica, la forma più antica di greco scritto, usata solo a scopi amministrativi, per la registrazione di documenti. Questi testi ci forniscono un quadro sommario della società micenea che si accorda molto di più con l’ipotesi di una mente bicamerale: gerarchie di funzionari, soldati o lavoratori, inventari di derrate, elenchi di merci dovute al sovrano e particolarmente agli dèi. Il mondo della guerra di Troia, quindi, era nella realtà storica molto più vicino alla rigida teocrazia predetta dalla teoria che non al libero individualismo descritto dal poema.
La struttura stessa dello Stato miceneo è inoltre profoiìdamente diversa dall’insieme di guerrieri più o meno autonomi descritto nell’Iliade ed è assai vicina all’organizzazione dei contemporanei regni teocratici della Mesopotamia (si veda soprattutto alle pp. 218 sgg.).
Julian Jaynes, “Il crollo della mente bicamerale”, Adelphi pag. 107
Un esempio di allucinazione uditiva
Un pomeriggio, in preda alla disperazione intellettuale, mi sdraiai su un sofà. D’improvviso, dal silenzio assoluto, una voce ferma, distinta e forte nisuonò alla mia destra in alto e disse: «Includi il conoscente nel conosciuto! ». Saltai in piedi esclamando assurdamente: «Chi è?» e volsi attorno lo sguardo per vedere chi fosse presente nella stanza. La voce era venuta da un punto preciso. Ma non c’era nessuno, neppure dietro il muro, dove andai scioccamente a vedere. Io non penso che questo concetto nebulosamente profondo fosse il frutto di un ispirazione divina, ma credo che fosse simile a ciò che udirono in passato le persone che sostennero di avere avuto un tale privilegio.
Voci del genere possono essere udite da persone perfettamente normali con una maggiore continuità. Dopo aver tenuto conferenze sulla teoria esposta in questo libro, rimasi sorpreso nel constatare quante persone del pubblico venissero, subito dopo, a parlarmi delle loro voci. La moglie di un giovane biologo mi disse che quasi ogni mattina mentre faceva i letti e sbrigava le faccende di casa aveva lunghe conversazioni, molto istruttive e gradevoli, con la nonna defunta, di cui udiva realmente la voce. Il marito rimase abbastanza sconvolto da questa storia, che la moglie non gli aveva mai raccontato, perché il fatto di «sentire voci» è considerato di solito un segno di follia. Cosa che, in persone sofferenti, è vera. A causa però del timore che avvolge questa malattia, la reale frequenza in persone normali di allucinazioni uditive così ricorrenti non è nota.
L’unico studio di una certa estensione, peraltro piuttosto modesto, fu eseguito nel secolo scorso in Inghilterra. In tale studio furono prese in considerazione solo le allucinazioni di persone normali in condizioni di buona salute. Su 7717 uomini, il 7,8 per cento aveva avuto un certo numero di allucinazioni. Su 7599 donne la percentuale fu del 12 per cento. La maggior frequenza di allucinazioni si ebbe in persone di età compresa fra venti e ventinove anni (per inciso, questo è anche il periodo in cui si verifica più comunemente la schizofrenia). Le allucinazioni visive furono niscontrate in numero doppio rispetto a quelle uditive. Si trovarono anche differenze nazionali. I russi avevano una frequenza di allucinazioni doppia rispetto alla media. I brasiliani presentavano una frequenza ancor maggiore, a causa dell’incidenza elevatissima di allucinazioni uditive. Le ragioni di queste differenze possono solo essere congetturate. Ma un’insufficienza di tale studio è che in un paese in cui si fa un gran parlare di fantasmi è difficile avere criteri esatti per stabilire il carattere allucinatonio di ciò che viene visto e udito. C’è un grande bisogno di nuovi e migliori studi di questo tipo.
Julian Jaynes, “Il crollo della mente bicamerale”, Adelphi pag. 114
Allucinazioni in soggetti psicotici
È ovviamente in soggetti schizofrenici che allucinazioni uditive simili a voci bicamenali sono più comuni e meglio studiate. Oggigiorno la cosa è difficile. Al primo sospetto di allucinazioni, agli psicotici viene somministrato un qualche tipo di farmaco, come la torazina, che elimina specificamente le allucinazioni. Questo modo di procedere è a dir poco discutibile, e può andare a vantaggio non del paziente ma dell’ospedale, che desidera eliminare questo controllo antagonistico sul paziente. Non è però mai stato dimostrato che i pazienti con allucinazioni siano più indocili degli altri. Anzi, nel giudizio di altri pazienti, gli schizofrenici con allucinazioni sono più amichevoli, meno atteggiati sulla difensiva, più simpatici, e in ospedale si comportano verso gli altri pazienti in modo più incoraggiante di quanto non facciano gli schizofrenici che non hanno allucinazioni.4 Non è inoltre escluso che, anche quando l’effetto è in apparenza negativo, le voci udite possano contribuire al processo della guarigione.
In ogni modo, dopo l’avvento della chemioterapia l’incidenza dei pazienti con allucinazioni è molto minore che un tempo. Studi recenti hanno rivelato grandi variazioni fra diversi ospedali, dal 50 per cento fra i pazienti psicotici del Boston City Hospital al 30 per cento in un ospedale dell’Oregon a una percentuale ancora minore in ospedali con pazienti a lunga degenza sottoposti a terapie intensive con sedativi. Perciò nelle pagine seguenti attingerò assai più spesso ad alcune opere del passato sulle psicosi, come il grande classico di Bleuler Dementia Praecox, in cui l’aspetto allucinatorio della schizofrenia in particolare è visto in modo più chiaro.< Questo aspetto è importante se dobbiamo farci un’idea della natura e della varietà delle voci bicamerali udite nelle antiche civiltà.
Il carattere delle voci
Nella schizofrenia le voci assumono qualsiasi tipo di rapporto con l’individuo. Esse conversano, minacciano, imprecano, criticano, consigliano, spesso con brevi
frasi. Ammoniscono, consolano, scherniscono, ordinano o a volte si limitano ad annunciare tutto ciò che accade. Urlano, piagnucolanO, ghignano, e variano da un lieve sussurro a urla tonanti. Spesso assumono qualche peculiarità speciale: talvolta per esempio parlano molto lentamente, scandiscono le parole, parlano in rima o con frasi ritmate, e persino in lingue straniere. A volte la voce è una sola, ma più spesso i pazienti odono alcune voci diverse, e occasionalmente molte. Come nelle civiltà bicamerali, sono riconosciute come voci di dèi, di angeli, di diavoli, di nemici o di una particolare persona o parente. Oppure a volte sono attribuite a un qualche oggetto somigliante a una statua, il che, come vedremo in seguito, era importante sotto questo punto di vista nei regni bicamerali.
Talvolta accade che le voci riducano i pazienti alla disperazione, comandando loro di fare qualcosa e poi rimproverandoli crudelmente una volta che l’ordine sia stato eseguito. A volte le voci intessono un dialogo fra loro, come di due persone che parlino del paziente. A volte i ruoli del pro e contro sono assunti dalle voci di persone diverse. La voce della figlia dice a un paziente:
«Sta per essere bruciato vivo! », mentre la voce della madre dice: «Non sarà bruciato! ». In altri casi, ci sono varie voci che parlano tutte assieme, cosicché il paziente non è in grado di seguirne i discorsi.
Localizzazione e funzione delle voci
In alcuni casi, specialmente in quelli più gravi, le voci non sono localizzate. Di solito, però, vengono da una direzione ben precisa: da un lato o dall’altro, da dietro, da sopra e da sotto; solo di rado sembrano provenire direttamente da davanti al paziente. A volte sembrano venire dai muri, dalla cantina e dal tetto, dal cielo e dall’inferno, da vicino o da lontano, da parti del corpo o da parti dell’abbigliamento. Altre volte, come si espresse un paziente, «assumono la natura di tutti quegli oggetti attraverso i quali parlano, sia che parlino dai muri, o da ventilatori, o nei boschi e nei campi».
In alcuni pazienti c’è una tendenza a sentir venire le voci buone e consolatrici da destra in alto, mentre le voci malvagie vengono dal basso a sinistra. In rari casi al paziente sembra che le voci vengano dalla sua stessa bocca, dandogli la sensazione di corpi estranei che gli salgono a forza alle labbra. Altre volte sono ipostatizzate in modi bizzarri. Un paziente affermò che una voce era appollaiata sopra ciascuna delle sue orecchie, una delle quali era un po’ più grande dell’altra, cosa che ricorda i ka e il modo in cui essi erano raffigurati nelle statue dei faraoni dell’antico Egitto, come vedremo in un prossimo capitolo.
Molto spesso le voci criticanoi pensieri e le azioni del paziente. A volte gli proibiscono proprio ciò che si propone di fare, e talvolta ciò accade ancor prima che il paziente sia consapevole della sua intenzione. Un paranoico intelligente proveniente dal cantone svizzero di Thurgau nutriva sentimenti ostili nei confronti dell’infermiere che si prendeva cura di lui. Quando questi entrava nella stanza, la voce diceva al paziente in tono di severo rimprovero, prima ancora che egli avesse fatto qualcosa: «Ecco! Un cittadino del cantone di Thurgau che percuote un onestissimo infermiere!».
Di importanza grandissima qui è il fatto che il sistema nervoso del paziente formula semplici giudizi percettuali di cui il «sé» del paziente non è consapevole. E questi giudizi, come abbiamo visto sopra, possono essere trasposti in voci che sembrano profetiche. Un inserviente che cammina lungo un corridoio può fare un lieve rumore di cui il paziente non ha coscienza. Ma il paziente ode la sua voce allucinatoria che gli grida: «Qualcuno sta percorrendo il corridoio con un secchio d’acqua». Poi la porta si apre e la profezia si avvera. La credenza nel carattere profetico delle voci, come doveva forse avvenire nei tempi bicamerali, viene così costruita e corrohorata. Il paziente allora segue solo le istruzioni che gli danno le sue voci ed è indifeso contro di loro. Oppure, se le voci non sono chiare, attende, catatontco e muto, di essere guidato da loro o, alternativamente, dalle voci e dalle mani dei suoi infermieri.
Di solito, durante il periodo di degenza in ospedale, la gravità della schizofrenia presenta oscillazioni e spesso le voci vanno e vengono parallelamente alle variazioni della condizione patologica. A volte sono presenti solo quando i pazienti stanno facendo certe cose, o solo in certi ambienti. E in molti pazienti, prima dell’introduzione dell’attuale chemioterapia, non c’era alcun istante dello stato di veglia in cui le voci mancassero. Quando la malattia è molto grave le voci sono fortissime e vengono dall’esterno; quando la malattia èmeno grave tendono a essere sussurri interni; e quando sono localizzate all’interno, le loro qualità uditive risultano talvolta vaghe. Può accadere allora che un paziente dica: «Non sono affatto voci reali ma semplicemente riproduzioni delle voci di parenti morti». Pazienti particolarmente intelligenti affetti da forme lievi della malattia spesso non sono certi se stanno realmente sentendo le voci o se invece hanno solo una coazione a pensarle. come «pensieri udibili» o «voci prive di suono» o «allucinazioni di significati ».
Julian Jaynes, “Il crollo della mente bicamerale”, Adelphi pag. 119
La componente visiva
Le allucinazioni visive sono meno comuni nella schizofrenia, ma talvolta si manifestano con estrema chiarezza e vivacità. Un mio soggetto schizofrenico, una briosa autrice ventenne di canzoni folk, era rimasta seduta in automobile per molto tempo nell’ansiosa attesa di un amico. Un’automobile blu che veniva lungo la strada d’un tratto stranamente rallentò, diventò cobr ruggine, poi mise grandi ali grigie e lentamente si alzò in volo al di sopra di una siepe e scomparve. La giovane però cominciò a preoccuparsi moltissimo quando vide che le altre persone in strada si comportavano come se non fosse accaduto niente di straordinario. Perché? A meno che non fossero tutti in combutta fra loro per nasconderle le loro reazioni. E perché avrebbero dovuto? Spesso è la narratizzazione di tali falsi eventi per opera della coscienza, che organizza il mondo in modo razionale attorno ad essi, che porta poi altri sintomi tragici.
È interessante che gli schizofrenici affetti da sordità grave che non hanno allucinazioni uditive hanno spesso allucinazioni visive del linguaggio dei segni. Una sedicenne divenuta sorda all’età di otto mesi indulgeva in comunicazioni bizzarre con spazi vuoti e gesticolava verso i muri. Una giovane donna affetta da sordità congenita aveva allucinazioni nelle quali comunicava col suo ragazzo nel linguaggio mimico. Altri pazienti sordi appaiono in comunicazione allucinatoria costante con persone immaginarie usando un miscuglio di parole del linguaggio dei segni e delle dita. Una donna di trentacinque anni, che aveva perso l’udito all’età di quattordici mesi, viveva una vita di sfrenata promlscuità alternata a violente esplosioni di collera. All’accettazione spiegò nel linguaggio dei segni che ogni mattina veniva da lei uno spirito vestito di bianco che le diceva nel linguaggio dei segni cose che a volte erano spaventose e che determinavano il suo umore per l’intera giornata. Un’altra paziente sorda sputava nel vuoto, dicendo che sputava contro gli angeli che stavano spiandola. Un uomo di trent’anni, sordo dalla nascita, vedeva, più benignamente, attorno a sé piccoli angeli ed essermi e credeva di possedere una bacchetta magica con cui poteva ottenere quasi tutto.
Talora, in quelli che chiamiamo stati crepuscolari acuti, il soggetto può vedere nelle sue allucinazioni, anche nella piena luce del giorno, intere scene, spesso di natura religiosa, per esempio un cielo aperto con un dio che gli parla. Altre volte possono apparire dinanzi al paziente parole scritte, come dinanzi a Nabucodonosor. Un paziente paranoico vide apparire in aria la parola veleno nel momento stesso in cui l’infermiere gli faceva prendere la sua medicina. In altri casi le allucinazioni visive possono essere integrate nell’ambiente reale, con personaggi che passeggiano in corsia, o si librano al di sopra della testa del dottore, nello stesso modo in cui, ritengo, Atena apparve ad Achille. Più comunemente, però, quando si verificano allucinazioni visive accompagnate da voci, le immagini sono semplicemente luci o nebbie, come quando Teti andò da Achille o Yahwèh da Mosè.