Il 1° dicembre 1968, concludendo la consueta preghiera mariana dell'Angelus, Paolo VI annuncia che celebrerà la messa della notte di Natale nel grandioso centro siderurgico Italsider di Taranto: "Sarà fra gli altiforni - a Dio piacendo - quest'anno il nostro presepio".
Il quarto Centro siderurgico di Taranto, inaugurato nel 1965 dal presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, costituisce all'epoca uno dei maggiori complessi industriali per la lavorazione dell'acciaio in Europa; gli operai sono 5.600, altri 2.300 trovano lavoro nelle opere di ampliamento. Solo nel turno di notte, nel corso del quale si inserisce la messa di Paolo VI, 2.200 tonnellate di ghisa e 2.500 tonnellate di acciaio escono dallo stabilimento. Grazie al grandioso investimento, il reddito medio per abitante in questo periodo sale da 175.000 a 604.000 lire, quasi cioè a livello di quello nazionale (632.000). La diocesi non è stata a guardare questo grande rivolgimento strutturale e sociale: è guidata da monsignor Guglielmo Motolese (1910-2005), dal 1957 amministratore apostolico e dal 16 gennaio 1962 arcivescovo di Taranto, dove rimane per ben ventiquattro anni, attuando una vasta pastorale sociale. Sorgono ben quattordici nuove chiese, un grande seminario, vengono nominati i cappellani del lavoro, si eleva la concattedrale della Gran Madre di Dio (di Giò Ponti) nella parte nuova di Taranto. Conclusa la visita di Paolo VI, al Pontefice sarà dedicato un nuovo quartiere per lavoratori e un monastero di carmelitane scalze, che avrà il particolare impegno di preghiera per il mondo del lavoro.
Purtroppo però è anche vero che il lavoro dei seimila operai dell'Italsider non ha prodotto gli importanti fenomeni di "induzione" industriale che si speravano, per cui la disoccupazione e l'emigrazione vanno aumentando; "L'Osservatore Romano" parla di "catapultamento", uno strappo sociale da una vita esclusivamente basata sull'agricoltura a un'altra, nella massima parte poggiata sull'industria. In occasione della visita del Papa, "l'Unità" scrive: "Per una notte la più alta cattedra di San Pietro si sposta tra gli operai al centro siderurgico di Taranto e lì incontra lo sfruttamento e l'arretratezza del Sud".
La preparazione dell'avvenimento è imponente e meticolosa e le immagini della messa saranno trasmesse dalla televisione italiana e, per 15 minuti, anche negli Stati Uniti, a colori, con un collegamento via satellite. Considerata - come dice ancora "L'Osservatore Romano" - "la tirannia di una produzione che non può essere mai interrotta", è proprio all'interno del Centro siderurgico che viene allestito l'altare per la celebrazione, la "grotta tra gli altiforni", la "capanna" o la "cattedrale di acciaio", come si sbizzarriscono a definirla le voci della stampa. Oltre agli operai dell'Italsider, assistono alla messa altri settemila occupati nell'arsenale militare e un migliaio dei cantieri navali; presenti anche le 65 parrocchie diocesane, che offrono simbolicamente una pisside, poi destinata a opere povere secondo i desideri del Papa.
Lungo il percorso di Paolo VI fino alla cattedrale, nella tarda serata del 24 dicembre 1968, piccoli gruppi di manifestanti espongono cartelli con le scritte "Puglia patria della disoccupazione e dell'emigrazione", "Salari umani per il Sud", "9200 feriti sul lavoro in un anno": un episodio sul quale il Papa si sofferma, una volta giunto nella basilica di San Cataldo, parlando a braccio e replicando con comprensione e affetto ai cartelli: "Abbiamo visto anche cartelli che esprimono un gemito: siamo sofferenti, siamo disoccupati. La Chiesa capisce e soffre e dice una parola di speranza". Esorta tutti a impegnarsi per creare, qui come altrove, un futuro più umano, più cristiano: "Molti fratelli sono nel bisogno e l'aiuto al fratello è tributo a Cristo. Il premio più rimunerativo sarà quello della buona coscienza e quello che Dio riserva a chi lo ha servito".
Nello stabilimento, il Papa, prima della messa, raggiunge i convertitori per la trasformazione della ghisa in acciaio: qui Montini osserva con una maschera protettiva il metallo che passa dal rosso all'incandescente, saluta affabilmente altri operai, infine sosta davanti a un presepe di compensato, intagliato dal reparto manutenzione. Sale poi su un hydrocar, il carrello elettrico utilizzato per trasportare materiali all'interno dell'officina, ed entra nel grande capannone, dove è stato allestito l'altare, consistente in una "bramma", una spessa lamiera di acciaio poggiata su due tronchi di tubi, che sullo sfondo accoglie un altro originale presepe, realizzato con figure intagliate nella lamiera. Ora la messa può incominciare. Dal marzo 1965 è entrato in vigore il nuovo rito, ma il Messale romano sarà pronto solo nel 1970: questa liturgia natalizia alterna dunque preghiere antiche e moderne, cercando un coinvolgimento dell'assemblea: la preghiera dei fedeli viene recitata da un dirigente, due impiegati e tre operai; i doni dell'offertorio sono presentati da un pescatore, un contadino, un operaio dell'arsenale e uno dell'Italsider.
L'omelia del papa è il clou di tutto l'evento. Incomincia con un richiamo agli interlocutori che ricorda i "tre cerchi" dell'Ecclesiam suam: "Figli! Fratelli! Amici! Uomini sconosciuti e già da noi amati come reciprocamente legati - voi a noi, noi a voi - da una parentela superiore (...) quella che ci fa cristiani, una sola cosa in Cristo! (...) e questo specialmente con noi, proprio perché siamo vostri, come lo è il Papa per tutti, per i cattolici, quali voi siete, specialmente: Padre, Pastore, Maestro, Fratello, Amico! Per ciascuno, per tutti. Così adesso pensateci! Così ascoltateci!". Ritroviamo la concezione montiniana dell'autorità: paterna, pastorale, di magistero, di espressione della cattolicità. Poi, il discorso cambia registro: "Noi facciamo fatica a parlarvi. Noi avvertiamo la difficoltà a farci capire da voi. O noi forse non vi comprendiamo abbastanza? Sta il fatto che il discorso è per noi abbastanza difficile. Ci sembra che tra voi e noi non ci sia un linguaggio comune. (...) Vi dicevamo, salutandovi, che siamo fratelli ed amici: ma è poi vero in realtà? Perché noi tutti avvertiamo questo fatto evidente: il lavoro e la religione, nel nostro mondo moderno, sono due cose separate, staccate, tante volte anche opposte". Un'osservazione amara, sulla quale Montini ha più volte ampiamente riflettuto anche durante l'episcopato milanese, quando diceva: "San Carlo ha dovuto lottare con la peste, noi, la nostra peste, la troviamo in questa distruzione delle anime nel mondo del lavoro. È il mistero doloroso del nostro tempo".
A Taranto, il Pontefice non dà spiegazioni teoriche complesse, ma esprime affermazioni: "Ma questa separazione, questa reciproca incomprensione non ha ragione di essere. Non è questo il momento di spiegarvi perché. (...) Non esiste, o meglio non deve esistere. Ripeteremo ancora una volta da questo centro siderurgico, che (...) quanto più l'opera umana qui si afferma nelle sue dimensioni di (...) modernità tanto più merita e reclama che Gesù, l'operaio profeta, (...) annunci qui, e di qui al mondo, il suo messaggio di rinnovazione e di speranza". Gli operai non devono aver paura che questo significhi clericalizzare il lavoro, spiega il Papa poche righe dopo, citando il paragrafo 34 della Gaudium et spes e dunque il concetto delle conquiste umane come segni della grandezza e del disegno di Dio per l'uomo.
L'omelia continua affrontando un tema tipicamente montiniano: l'intelligenza della scelta di fede, nella quale sono coinvolti gli operai, ma soprattutto coloro che usano la mente nel loro lavoro, tecnici e imprenditori. Il Papa definisce "opere ciclopiche e perfette" quelle come il centro siderurgico tarantino, che paragona addirittura all'impresa spaziale di quei giorni, perché entrambe queste manifestazioni umane sono esempio del dominio dell'uomo sulle forze della natura; ma l'intelligenza deve portare a chiedersi quali siano "le leggi nascoste delle cose"; il lavoro così "diventa scoperta del mistero, diventa adorazione, diventa preghiera. Cioè, cioè, cari lavoratori! Voi vedete come quando lavorate in questa officina è, in certo senso, come se foste in Chiesa (...). Voi vedete come lavoro e preghiera hanno una radice comune, anche se espressione diversa. Voi, se siete intelligenti, se siete veri uomini, potete e dovete essere religiosi, qui, nei vostri immensi padiglioni del lavoro terrestre".
Questo accostamento stretto tra lavoro e preghiera, riproposto anche in altre occasioni, non è visto solo in senso individuale ma come stimolo a una trasformazione interiore del corpo ecclesiale e del mondo intero, destinata a dare frutti di giustizia, fraternità, libertà, pace.
A questo punto, il discorso tarantino acquista una dimensione sociale significativa, che prende avvio dalla constatazione delle condizioni concrete in cui si svolge il lavoro operaio all'Italsider, definito più volte come "faticoso". Il Papa si chiede: "L'uomo, impegnato nel lavoro, carico di fatica, e pieno lui stesso di sentimenti, di pensieri, di bisogni, di stanchezza, di dolore, quale sorte trova qui dentro? (...) Sarà macchina anche lui? Puro strumento che vende la propria fatica per avere un pane, un pane da vivere". In ogni incontro con le diverse fasce di fedeli interessate ai temi sociali e del lavoro il Papa parla della giustizia sociale, secondo un suo schema spirituale - e anche filosofico, con qualche profilo psicologico - che prevede dei passaggi precisi: dapprima il riconoscimento e l'inquadratura del problema; quindi la confutazione su un piano razionale delle soluzioni errate che nel tempo e tutt'oggi vengono prospettate, provenienti dalle ideologie del marxismo e del capitalismo; quindi il forte richiamo del compimento trascendente, al quale è possibile pervenire (e, il Papa spera, esserne conquistati) grazie alla mediazione di un importante canone interpretativo della realtà, l'umanesimo cristiano. Il metodo montiniano è sempre interiore e spirituale e gli scopi del Papa non possono che essere quelli della diffusione della Buona Novella e del Regno di Cristo; inoltre, i valori morali sono da lui vissuti essenzialmente come virtù: "Le virtù che la dottrina cristiana insegna e inculca sono in effetti il fondamento più sicuro di tutta una vita sociale ben ordinata".
Conseguentemente, la giustizia sociale è quella di Cristo, è la virtù della giustizia verso gli uomini, una commistione di valori spirituali e sociali; tant'è che il fondamento della convivenza sociale, per la Chiesa - ripete in più occasioni Paolo VI - non è un qualsiasi principio umano ma la verità, la giustizia e l'amore in quanto postulati religiosi ed etici. A Milano, inaugurando la sede dell'Unione sindacale provinciale, aveva detto: "Io non esito a dire che il cristianesimo (...) è il principio più esigente, a titolo proprio ed inalienabile, d'una sempre migliore giustizia sociale".
All'Italsider afferma: "La Chiesa riconosce, sì, il bisogno di giustizia del popolo onesto, e lo difende, come può, e lo promuove. E badate bene: non di solo pane vive l'uomo, dice la Chiesa ripetendo le parole di Cristo; non di sola giustizia economica, di salario, di qualche benessere materiale, ha bisogno il lavoratore, ma di giustizia civile e sociale. Ancora per questa rivendicazione la Chiesa vi comprende e vi aiuta". Il 14 maggio 1971, la lettera apostolica Octogesima adveniens dirà che i nuovi problemi sociali - urbanesimo, ruolo della donna e dei giovani, mondo del lavoro - devono essere affrontati cercando di "instaurare progressivamente una giustizia sempre meno imperfetta". Il secondo Sinodo dei vescovi, che ha luogo dal 30 settembre al 6 novembre 1971, tratterà anche il tema della giustizia e la Giornata della pace del 1972 avrà il seguente messaggio: "Se vuoi la pace lavora per la giustizia". Anche a Taranto il "bisogno di giustizia", cui si riferisce tutta l'ultima parte del discorso, è orientato secondo queste motivazioni, né poteva essere diversamente. La valorizzazione, da parte della Chiesa, del mondo del lavoro deriva quindi dalla valorizzazione spirituale dell'uomo che lavora e dunque dell'uomo tout court. "Non c'è nessuno - aveva detto ai netturbini Paolo VI - che abbia dell'uomo concetto più grande di quello posseduto e insegnato dalla Chiesa". A Taranto aggiunge: "Dite una cosa: (...) non vi sono uomini vivi, uomini sofferenti, uomini bisognosi di dignità, di pace, di amore qui dentro, che non comprendono il pericolo d'essere ridotti ad esseri di una "sola dimensione", quella di strumenti?". Qui vediamo il richiamo montiniano, e non è la prima volta, alla critica di Herbert Marcuse nei confronti dell'uomo alienato dalla società tecnocratica.
Infine, a chiusura del discorso, la proposta dell'incontro con Cristo, esposta in pochissime righe, perché il messaggio religioso in senso stretto è una proposta essenziale: "Ecco, figli carissimi, perché qua siamo venuti. (...) Siamo venuti per lanciare di qui, come uno squillo di tromba risonante nel mondo, il beato annunzio del Natale all'umanità che sale, che studia, che lavora, che fatica, che soffre, che piange e che spera; e l'annuncio è quello degli Angeli di Bethleem: oggi è nato il Salvatore vostro, Cristo Signore".
Al termine della celebrazione, Paolo VI si ferma a salutare la folla, a stringere le mani; per accogliere il saluto dei più lontani si inginocchia per terra, sorridente. Semplici gesti, che trasmettono il sensus fidei che vi sottende, come aveva detto ai netturbini: "Io sono obbligato ad inchinarmi dinanzi ad ogni creatura umana che porta impressa sulla fronte l'immagine di Dio".