00 16/09/2008 10:05
Alcuni stralci dell'opera sulla "teoria della mente bicamerale"
da www.ilpalo.com
Julian Jaynes, “Il crollo della mente bicamerale”, Adelphi pag. 121
Cervelli scissi in due
È possibile pensare ai due emisferi del cervello quasi come a due individui distinti, uno solo dei quali è in grado di parlare palesemente, mentre entrambi sono in grado di ascoltare e di capire?
I dati a sostegno della plausibilità di quest’ipotesi provengono da un altro gruppo di epilettici. Si tratta della dozzina circa di pazienti che hanno subìto una completa commissurotomia, il taglio chirurgico della linea mediana di tutte le interconnessioni fra i due emisferi. Questa operazione (che non separa realmente i due emisferi, in quanto le parti più profonde del cervello sono ancora connesse fra loro) guarisce di solito forme di epilessia altrimenti non trattabili, impedendo la diffusione di un’eccitazione neurale anormale sull’intera corteccia. Subito dopo l’operazione, alcuni pazienti perdono la parola per un periodo che può durare sino a due mesi, mentre altri non presentano alcun problema: nessuno ne sa la ragione. Forse ciascuno di noi ha rapporti lievemente diversi fra un emisfero e l’altro. Il recupero è graduale, tutti i pazienti presentano deficit di memoria a breve termine (dovuti forse all’interruzione delle piccole commissure dell’ippocampo), qualche problema di orientamento e affaticamento mentale.
Ora, la cosa sorprendente è che tali pazienti, a un anno circa dall’intervento, non si sentono in nulla diversi da come si sentivano prima dell’operazione. Essi non percepiscono niente di fuori posto. In questo momento stanno forse guardando la televisione o leggendo il giornale senza lamentare alcunché di peculiare. Né un osservatore percepisce in loro nulla di diverso.
Un rigoroso controllo dell’input sensoriale rivela però importanti difetti di enorme interesse.
Quando noi osserviamo, per esempio, la parola centrale di una riga di stampa, tutte le parole che si trovano alla sua sinistra vengono viste solo dall’emisfero destro e tutte le parole che si trovano alla sua destra vengono viste solo dall’emisfero sinistro. Quando le connessioni fra i due emisferi sono intatte, non c e alcun problema particolare di coordinazione fra i due input, anche se in realtà il fatto stesso di riuscire a leggere è stupefacente. Ma se le connessioni fra i nostri emisferi fossero state tagliate, la situazione sarebbe molto diversa. A partire dalla metà della riga, continueremmo a vedere come prima tutte le parole stampate a destra e saremmo in grado di leggere quasi come al solito. Tutti i caratteri e tutta la pagina alla nostra sinistra sarebbero invece cancellati, ridotti a una sorta di vuoto. Non un vuoto vero e proprio, percepibile come tale, ma un nulla, un nulla assoluto, assai più nulla di qualsiasi nulla che possiamo immaginare. Un nulla così totale che non saremmo coscienti neppure della sua esistenza, per quanto strano ciò possa sembrare. Esattamente come nel caso del fenomeno della macchia cieca, il «nulla» è in qualche modo «colmato », «saldato », come se tutto fosse regolare. In realtà, però, tutto quel nulla si troverebbe nell’altro nostro emisfero, il quale vedrebbe tutto ciò che «noi»
non vediamo, tutti i caratteri a sinistra, e li vedrebbe perfettamente bene. Ma poiché tale emisfero non ha un linguaggio articolato, non può dire di vedere alcunché. È come se «noi» — qualsiasi cosa ciò possa significare — ci trovassimo «nel» nostro emisfero sinistro e ora, con le commissure tagliate, non potessimo mai sapere o
avere coscienza di ciò che una persona del tutto diversa, che è anch’essa « noi », vede o pensa nell’altro emisfero. Due persone in una testa sola.
Passiamo ora a descrivere uno dei modi in cui vengono esaminati questi pazienti commissurotomizzati. Il paziente fissa il centro di uno schermo traslucido; diapositive di oggetti proiettate sul lato sinistro dello schermo vengono vedute quindi solo dall’emisfero destro e non possono essere descritte verbalmente, anche se il paziente è in grado di usare la mano sinistra (controllata dall’emisfero destro) per indicare una figura corrispondente o per cercare l’oggetto fra altri, pur sostenendo a voce di non averlo visto.” Tali stimoli, visti dal solo emisfero destro non dominante, sono tmprigionati in esso, e non possono essere «raccontati» all’emisfero sinistro, dove si trovano le aree del linguaggio, perché le connessioni sono state tagliate. L’unico modo in cui possiamo sapere che l’emisfero destro possiede tale informazione è di chiedergli di usare la mano sinistra per indicare un oggetto, cosa che esso prontamente fa.
Se si proiettano simultaneamente due immagini nei campi visivi destro e sinistro, come per esempio il simbolo del dollaro a sinistra e un punto interrogativo a destra, e si chiede al soggetto di disegnare ciò che ha visto con la mano sinistra, nascosta alla vista da uno schermo, egli disegna il simbolo del dollaro. Se gli si chiede che cosa ha appena disegnato con la mano nascosta, sostiene di aver disegnato il punto interrogativo. In altri termini, un emisfero non sa che cosa ha fatto l’altro.
Inoltre, se nel campo visivo sinistro viene proiettato il nome di un oggetto, per esempio «gomma per cancellare », il soggetto è in grado di trovare una gomma in un insieme di oggetti nascosti dietro uno schermo usando solo la mano sinistra. Se al soggetto viene chiesto poi che cos’è l’oggetto che ha scelto correttamente dietro lo schermo, il suo «io» dell’emisfero sinistro non sa dire che cosa il suo «io» muto dell’emisfero destro sta tenendo nella mano sinistra. Similmente, la mano sinistra può cercare la gomma in un insieme di oggetti nascosti alla vista se qualcuno pronuncia le parole «gomma per cancellare », ma l’emisfero sinistro non e in grado di dire quand’è che la mano sinistra ha trovato l’oggetto. Ciò dimostra, ovviamente, quanto ho detto più sopra, ossia che entrambi gli emisferi comprendono il linguaggio, ma in precedenza non era mai stato possibile accertare in quale misura cio avvenisse nell’emisfero destro.
Troviamo inoltre che l’emisfero destro è in grado di comprendere definizioni complicate. Se si proietta l’espressione «strumento per radere» nel campo visivo sinistro, e quindi nell’emisfero destro, la mano sinistra indica un rasoio; essa indica inoltre una saponetta in risposta alla definizione « toglie lo sporco », o una moneta da venticinque cents in risposta alla definizione «da inserire in un distributore automatico».
L’emisfero destro di questi pazienti può inoltre reagire in modo emotivo senza che l’emisfero sinistro, quello deputato al linguaggio, sappia che cosa sta accadendo. Se una serie di figure geometriche neutre viene proiettata a caso nei campi visivi destro e sinistro (ossia rispettivamente negli emisferi sinistro e destro), e poi a un certo punto viene proiettata di sorpresa a sinistra (cioè nell’emisfero destro) l’immagine di una ragazza nuda, il paziente (in realtà l’emisfero sinistro del paziente) dice di non aver visto nulla o solo un lampo di luce. Ma i sogghigni, i rossori e le risatine del minuto successivo contraddicono quel che l’emisfero del linguaggio ha appena detto. Alla domanda di quale sia la ragione di quel ridacchiare, l’emisfero sinistro, quello del linguaggio, risponde di non averne idea. Queste espressioni facciali non sono confinate, per inciso, a una sola parte del viso, essendo mediate dalle interconnessioni profonde del ponte di Varolio. L’espressione delle emozioni non riguarda la corteccia.
Una situazione simile si riscontra anche per altre modalità sensoriali. Odori presentati alla narice destra, e quindi all’emisfero destro (le fibre olfattorie non si incrociano) in pazienti commissurotomizzati non possono essere indicati verbalmente dall’emisfero del linguaggio, anche se questo è in grado di dire molto bene se l’odore è piacevole o spiacevole. Il paziente può anche grugnire, avere reazioni di avversione, o esclamare «Puah!» sentendo un odore sgradevole, ma non sa dire verbalmente se è odore d’aglio, di formaggio o di una sostanza in decomposizione. Gli stessi odori presentati alla narice sinistra possono essere nominati e descritti alla perfezione. Ciò significa che l’emozione del disgusto riesce a pervenire all’emisfero del linguaggio attraverso il sistema limbico e il ponte di Varolio, che sono intatti, mentre l’informazione più specifica elaborata dalla corteccia non riesce a passare all’altro emisfero.
C’è in effetti qualche indicazione del fatto che èl’emisfero destro a stimolare comunemente le reazioni emotive di dispiacere a partire dal sistema limbico e dal ponte di Varolio. In situazioni sperimentali, in cui l’emisfero destro, l’emisfero muto, viene informato della risposta esatta, e poi sente che l’emisfero sinistro, quello dominante, compie chiari errori verbali, il paziente può aggrottare le ciglia, trasalire o scuotere la testa. Non è un semplice modo di dire affermare che l’emisfero destro si irrita per le risposte vocali erronee dell’altro emisfero. Tale è forse l’irritazione di Atena, quando afferra Achille per la chioma bionda e lo distoglie dal proposito di uccidere il suo re (Iliade, I, 197). Oppure lo sdegno di Yahwèh contro le iniquità perpetrate dal suo popo1o.
Ovviamente c’è una differenza. L’uomo bicamerale aveva tutte le sue commtssure intatte. Io tuttavia prospetterò più avanti la possibilità che il cervello venga riorganizzato a tal punto da mutamenti ambientali da rendere non del tutto assurde le inferenze del paragone che ho fatto qui. In ogni modo gli studi su questi pazienti commissurotomizzati dimostrano senza ombra di dubbio che i due emisferi sono in grado di funzionare come se fossero due persone indipendenti, persone che nel periodo bicamerale erano, a mio avviso, l’individuo e il suo dio.
Julian Jaynes, “Il crollo della mente bicamerale”, Adelphi pag. 149
Le differenze degli emisferi nella funzione cognitiva riflettono le dfferenze fra dio e uomo
Se questo modello cerebrale della mente bicamerale è corretto, esso dovrebbe consentirci di prevedere differenze assai pronunciate nella funzione cognitiva fra i due emisferi. Specificamente, dovremmo attenderci che le funzioni necessarie al lato umano si trovino nell’emisfero sinistro o dominante, e le funzioni necessarie agli dèi siano più pronunciate nell’emisfero destro. Inoltre, non c’è ragione per non credere che almeno i residui di queste diverse funzioni siano presenti nell’organizzazione cerebrale dell’uomo contemporaneo.
La funzione degli dèi era principalmente quella di guidare e progettare l’azione in situazioni nuove. Gli dèi valutavano i problemi e organizzavano l’azione secondo un modello o scopo costante che dette origine a complesse civiltà bicamerali, combinando tutte le diverse parti, i tempi della semina, i tempi del raccolto, la scelta dei prodotti, l’intera vasta composizione delle cose in un disegno grandioso, e dando istruzioni all’uomo neurologico nel suo santuario verbale analitico nell’emisfero sinistro. Potremmo così predire che una funzione vestigiale dell’emisfero destro dovrebbe essere oggi di tipo organizzativo, la selezione cioè delle esperienze di una civiltà e la loro combinazione in un modello in grado di «dire» all’individuo che cosa fare. Un’attenta lettura di vari discorsi degli dèi nell’Iliade, nell’Antico Testamento o in altre letterature dell’antichità si concilia con quest’ipotesi. Vari eventi, passati e futuri, sono scelti, classificati, sintetizzati in ùn nuovo quadro, spesso con quella forma di sintesi ultima che èla metafora. E queste funzioni dovrebbero caratterizzare perciò l’emisfero destro.
Le osservazioni cliniche sono in accordo con questa ipotesi. Dall’osservazione dei pazienti commissurotomizzati di alcune pagine fa, sappiamo che l’emisfero destro con la sua mano sinistra è eccellente nella scelta e nella classificazione di forme, dimensioni e consistenze tattili. Da pazienti con lesioni cerebrali sappiamo che danni all’emisfero destro interferiscono con relazioni spaziali e con èompiti gestaltici, sintetici. I labirinti sono problemi in cui vari elementi di una struttura spaziale devono essere organizzati nell’apprendimento. Pazienti nei quali il lobo temporale destro è stato asportato trovano quasi impossibile l’apprendimento di labirinti visivi e tattili, mentre pazienti con lesioni di uguale estensione al lobo temporale sinistro incontrano poca difficoltà.
Un altro compito che implica l’organizzazione di parti in una struttura spaziale è il Block Design Test di Kohs, che viene usato comunemente in molti reattivi d’intelligenza. Al soggetto viene presentato un semplice motivo geometrico e gli viene chiesto di riprodurlo con cubi su cui sono dipinti gli elementi che lo compongono. La maggior parte di noi ci riesce senza difficoltà. I pazienti con lesioni cerebràli nell’emisfero destro trovano tale esercizio estremamente difficile , tanto che questo test viene usato appunto per diagnosticare danni all’emisfero destro. Nei pazienti commissurotomizzati di cui abbiamo parlato in precedenza, spesso la mano destra non riesce a comporre il disegno con i cubi. La mano sinistra, che in un certo senso è la mano degli dèi, non ha alcun problema. In alcuni fra i pazienti commissurotomizzati, l’osservatore dovette addirittura tenere ferma la mano sinistra del soggetto, la quale cercava di aiutare la destra nei suoi goffi tentativi di assolvere questo semplice compito. Da questi e altri studi è stata quindi tratta l’inferenza che l’emisfero destro è più impegnato in compiti sintetici e spaziali-costruttivi, mentre l’emisfero sinistro è più analitico e verbale. L’emisfero destro, forse come gli dèi, vede un significato nelle parti solo all’interno di un contesto più ampio; esso guarda alle totalità. L’emisfero sinistro o dominante, come il lato umano della mente bicamerale, concentra invece la sua attenzione sulle parti.
Questi risultati clinici sono stati confermati in persone normali in quello che promette di essere il primo di molti studi a venire. Elettrodi per elettroencefalografia furono applicati sui lobi temporale e parietale destro e sinistro di soggetti normali, che furono sottoposti a vari test. Quando veniva loro chiesto di scrivere vari generi di lettere implicanti abilità verbali e analitiche, gli elettroencefalogrammi rivelavano nell’emisfero sinistro onde rapide a basso potenziale, indicanti che era l’emisfero sinistro a compiere il lavoro, mentre lente onde alfa (che in un soggetto a riposo con gli occhi chiusi si riscontrano in entrambi gli emisferi) si osservarono nell’emisfero destro, segno che esso non stava lavorando. Quando a tali soggetti vengono assegnati reattivi spaziali sintetici, come il Block Test di Kohs, così come è usato negli studi cimici citati sopra, si ottengono risultati inversi. In tali casi è l’emisfero destro a fare il lavoro.
Altre deduzioni si possono fare circa quali funzioni nell’emisfero destro potrebbero essere vestigiali, considerando quale sarebbe dovuto essere il comportamento delle voci divine della mente bicamerale in situazioni particolari. Per selezionare l’esperienza e sintetizzarla in direttive per l’azione, gli dèi avrebbero dovuto compiere certi tipi di riconoscimento. In tutti i discorsi degli dèi, nelle letterature antiche, tali riconoscimenti sono comuni. Non intendo riconoscimenti di individui in particolare, ma più in generale di tipi di persone, di categorie, oltre che di individui. Un giudizio importante per un essere umano di qualsiasi secolo è il riconoscimento delle espressioni del volto, particolarmente in riferimento a intenzioni amichevoli o ostili. Se un uomo bicamerale vedeva venire verso di sé un uomo che non riconosceva, era di grande importanza per la sopravvivenza che il lato divino della sua mente riuscisse a stabilire se quella persona aveva intenzioni amichevoli o ostili.
L’incapacità di riconoscere le facce, e non solo le espressioni facciali, è associata molto più spesso a danni all’emisfero destro che non al sinistro. In esperimenti cimici, al soggetto viene chiesto di accoppiare una visione frontale di una faccia con immagini di tre quarti della stessa faccia in condizioni di illuminazione diverse. Pazienti con lesioni nell’emisfero destro trovano questo compito estremamente difficile rispetto a soggetti normali o a pazienti con lesioni nell’emisfero sinistro.20 Il riconoscimento sia delle facce sia delle espressioni facciali è perciò primariamente una funzione dell’emisfero destro.
E distinguere l’amico dal non amico in situazioni nuove, era una delle funzioni di un dio.
Julian Jaynes, “Il crollo della mente bicamerale”, Adelphi pag. 153
La plasticità del cervello
Ci si può chiedere come sia possibile che un sistema come questo, un cervello strutturato in quella che ho chiamato una mente bicamerale, questo sostrato della civiltà umana per migliaia di anni implicante le localizzazioni menzionate nel nostro modello, come sia possibile che la sua funzione muti in un periodo di tempo tanto breve, così che oggi le voci ammonitrici non si sentono più e noi possediamo in loro vece questa nuova organizzazione chiamata coscienza. Benché la quantità di genocidi avvenuti nel mondo nel corso di tali mutamenti sia stata certamente tale da consentire una qualche selezione ed evoluzione, io non desidero in alcun modo fare appello a questo meccanismo. Senza dubbio la selezione naturale che ebbe luogo nei periodi di sviluppo della coscienza dette un suo contributo al perpetuarsi di quest’ultima, ma non penso si possa dire che essa abbia determinato lo sviluppo della coscienza dalla mente bicamerale nel senso in cui la pinna di un cetaceo si è sviluppata da una zampa ancestrale.
Una vera comprensione della situazione richiede una concezione del cervello diversa da quella che era usuale alcuni decenni or sono. In questa nuova concezione l’accento è posto sulla plasticità del cervello, sulla sua rappresentazione ridondante di capacità psicologiche all’interno di un centro o regione specializzata, sul controllo multiplo di capacità psicologiche da parte di vari centri o accoppiati bilateralmente o nella forma di quelle che Hughlings Jackson riconobbe come «rirappresentazioni» di una funzione a livelli successivamente superiori e filogeneticamente più recenti del sistema nervoso. Questo tipo di organizzazione del cervello dei mammiferi consente quei fenomeni sperimentali che sono raggruppati assieme sotto la categoria di «recupero di funzione ». Si ottiene così una visione del cervello molto più plastica di quella consueta, con un’eccedenza enorme di neuroni, tale che, per esempio, è possibile asportare chirurgicamente il 98 per cento delle vie ottiche in un gatto senza menomarne la percezione della luce e delle forme. Il cervello pullula di centri ridondanti, ciascuno dei quali può esercitare un’influenza diretta su un percorso finale comune, o modulare l’operazione di altri, o fare entrambe le cose, e la cui disposizione e coordinazione possono assumere molte forme e gradi di accoppiamento fra centri costitutivi.
Tutta questa rappresentazione ridondante con serie di controlli multipli ci presenta la nozione di un tipo di cervello molto più plastico di quello descritto dai neurologi del passato. Un particolare comportamento o gruppo di comportamenti impegna in un dato centro una quantità di neuroni simili e può richiedere l’intervento di vari centri diversi organizzati in varie strutture di inibizione e di facilitazione, a sec onda del loro status evoluzionistico. E il grado di stabilità dell’accoppiamento fra i diversi centri presenta variazioni enormi da una funzione all’altra. In altri termini, la quantità di variabilità che i loci delle funzioni corticali possono subire è diversa per le varie funzioni, ma diventa sempre più chiaro che tale variabilità è un carattere spiccato del cervello dei mammiferi superiori. Lo scopo biologico o vantaggio selettivo di tale rappresentazione ridondante e di tale molteplicità di controlli e della plasticità che ne risulta è duplice: ne consegue infatti una protezione dell’organismo contro gli effetti dei danni al cervello e, fatto forse più importante, un’adattabilità molto maggiore alle sfide costantemente mutevoli dell’ambiente. Sto pensando qui a sfide come quelle portate all’esistenza del primate uomo dalle successive glaciazioni e, ovviamente, alla prova ancora maggiore del crollo della mente bicamerale, che fu superata dall’uomo con lo sviluppo della coscienza.
Ma ciò non significa solo che il comportamento dell’uomo adulto è meno rigido di quello dei suoi progenitori, anche se ciò è ovviamente vero. Il fatto più importante è che, in questa concezione, le vicende ontogenetiche iniziali dell’individuo possono cambiare completamente il modo in cui è organizzato il cervello. Alcuni anni fa un’idea come questa sarebbe parsa decisamente strampalata. Ma la crescente marea della ricerca ha eroso ogni concetto rigido del cervello, e ha sottolineato il grado notevole in cui il cervello può compensare le strutture mancanti in conseguenza di lesioni o di malformazione congenita. Molti studi dimostrano che lesioni al cervello subite da animali nella loro infanzia possono incidere ben poco sul successivo comportamento dell’adulto, mentre danni simili sofferti dall’adulto possono avere come conseguenza mutamenti profondi. Abbiamo già avuto occasione di ricordare che lesioni subite in tenera età all’emisfero sinistro conducono in generale allo spostamento dell’intero meccanismo del linguaggio nell’emisfero destro.
Uno dei casi più sorprendenti fra quelli che dimostrano questa plasticità del cervello è quello di un uomo di trentacinque anni morto per un tumore maligno addominale. L’autopsia rivelò l’assenza congenita della fimbria dell’ippocampo, del fornice, del setto pellucido e della massa intermedia del talamo, con un ippocampo, giri dell’ippocampo e giri dentati anormalmente piccoli. Nonostante queste notevoli anormalità, il paziente aveva sempre dimostrato un carattere «pacioso» e a scuola era stato addirittura il primo della classe!
Così il sistema nervoso compensa durante la crescita i danni di origine genetica o ambientale seguendo percorsi di sviluppo diversi ma di solito meno preferiti che utilizzano tessuti integri. Negli adulti, quando lo sviluppo è completato, ciò non è più possibile, giacché in tale età sono già stati realizzati i modi normalmente preferiti di organizzazione neurale. Tale riorganizzazione dei sistemi di controllo multiplo può aver luogo solo nelle prime fasi dello sviluppo. E ciò vale anche per il rapporto fra i due emisferi che ha un’importanza così centrale per la nostra discussione.25
Avendo presente questo sfondo, non vedo quale difficoltà ci sia a considerare che, nelle epoché bicamerali, la parte corrispondente all’area di Wernicke nell’emisfero destro non dominante avesse la sua rigorosa funzione bicamerale, mentre dopo un migliaio d’anni di riorganizzazione psicologica in cui tale bicameralità fu scoraggiata al suo apparire nelle prime fasi dello sviluppo, tale area funzioni in modo diverso. E similmente sarebbe sbagliato pensare che, quale che possa essere oggi la neurologia della coscienza, essa sia fissata per sempre. I casi che abbiamo esaminato forniscono indicazioni diverse, ossia che la funzione del tessuto cerebrale non è inevitabile, e che forse, dati dei programmi di sviluppo diversi, sono possibili organizzazioni diverse.
Julian Jaynes, “Il crollo della mente bicamerale”, Adelphi pag. 158
L’uomo antico non aveva un linguaggio verbale
A volte la reazione alla tesi che l’uomo antico non aveva un linguaggio verbale è la domanda: in che modo allora l’uomo poteva operare o comunicare? La risposta è molto semplice: esattamente come tutti gli altri primati, ossia con un’abbondanza di segnali visivi e vocali che erano assai lontani dal linguaggio sintattico che noi usiamo oggi. E quando io porto quest’assenza di un linguaggio articolato a tutto il Pleistocene, quando l’uomo sviluppò vari tipi di utensili per scheggiare la pietra e di amigdale, di nuovo i miei amici linguisti deplorano la mia arrogante ignoranza e giurano che, per poter trasmettere anche solo tali abilità rudimentali da una generazione all’altra, doveva esistere il linguaggio. Ma consideriamo che è quasi impossibile descrivere mediante il linguaggio come si possono ottenere utensili scheggiando la selce. Quest’arte veniva trasmessa esclusivamente per imitazione, esattamente nello stesso modo in cui gli scimpanzé trasmettono l’uso di introdurre una pagliuzza in un formicaio per estrarne le formiche. E lo stesso problema della trasmissione della capacità di andare in bicicletta: in questo caso il linguaggio è davvero di qualche utilità?
Poiché il linguaggio deve introdurre mutamenti molto vistosi nell’attenzione rivolta dall’uomo a cose e persone, e poiché esso consente un trasferimento di informazione di grandissima portata, dev’essersi sviluppato nel corso di un periodo in cui resti archeologici documentino tali mutamenti. Un periodo del genere è il Pleistocene superiore, grosso modo fra il 70.000 e l’8000 a.C. Questo periodo fu caratterizzato climaticamente da grandi variazioni della temperatura, corrispondenti all’avanzare e al ritirarsi di condizioni glaciali, e biologicamente da grandi migrazioni di animali e di esseri umani causate da queste variazioni di clima. La popolazione degli ominidi esplose dal cuore del continente africano diffondendosi nel subartico euroasiatico e poi nelle Americhe e in Australia. La popolazione stabilita-si attorno al Mediterraneo raggiunse un nuovo culmine e assunse la guida nell’innovazione culturale, trasferendo il centro culturale e biologico dell’uomo dai tropici alle medie latitudini. L’uso del fuoco, delle caverne e delle pelli crearono per l’uomo una sorta di microclima trasportabile che consentì il verificarsi di queste migrazioni.
Noi designamo abitualmente questi uomini come neanderthaliani tardi. Ci fu un tempo in cui si pensò che fossero una specie umana a sé, soppiantata attorno al 35.000 a.C. dall’uomo di Cro-Magnon. Secondo l’opinione più recente, però, i neanderthaliani farebbero parte della linea generale dell’uomo, una linea che ebbe una grande variabilità, grazie alla quale l’evoluzione poté assumere un ritmo sempre più accelerato man mano che l’uomo, portando con sé il suo microclima artificiale, si diffuse in queste nuove nicchie ecologiche. Sono necessarie altre ricerche per stabilire i veri modelli di insediamento, ma oggi si mette l’accento soprattutto sulla variabilità: alcuni gruppi sempre in movimento, altri organizzati in migrazioni stagionali, altri ancora stanziali per tutto l’anno.
Se insisto sui mutamenti di clima durante quest’ultima epoca glaciale è perché credo che questi mutamenti siano stati alla base delle pressioni selettive che promossero lo sviluppo del linguaggio, uno sviluppo passato per varie fasi.
Grida, modificatori e comandi
La prima fase e la condizione sine qua non del linguaggio è lo sviluppo a partire da grida accidentali di grida intenzionali, quelle grida che tendono a essere ripetute fino a quando non interviene un mutamento di comportamento nel destinatario. In precedenza, nell’evoluzione dei primati erano intenzionali solo i segnali posturali o visivi, come gli atteggiamenti di minaccia. La loro evoluzione in segnali uditivi fu resa necessaria dalla migrazione dell’uomo in climi nordici, dove c’era meno luce sia nell’ambiente sia nelle buie caverne in cui l’uomo fissò la sua dimora e dove i segnali visivi non potevano essere percepiti così facilmente come nelle luminose savane africane. Questa evoluzione potrebbe avere avuto inizio già nel terzo periodo glaciale o forse ancor prima. Ma solo con l’approssimarsi del freddo crescente e della crescente oscurità della quarta glaciazione nei climi nordici, la presenza ditali segnali vocali intenzionali diede uno spiccato vantaggio selettivo a coloro che li possedevano.
Io sto compendiando qui una teoria dell’evoluzione del linguaggio che ho sviluppato con maggiore abbondanza di particolari e con maggiore prudenza altrove.’0 Questa teoria non vuol essere una formulazione definitiva di ciò che accadde nell’evoluzione, quanto piuttosto un’ipotesi di lavoro approssimativa che consenta un primo approccio al problema. Inoltre non è detto che le fasi dello sviluppo del linguaggio che descriverò qui siano necessariamente separate, né che debbano essere sempre nello stesso ordine in località diverse. L’asserzione centrale di questa concezione, lo ripeto, è che ogni nuovo stadio lessicale creò letteralmente nuove Percezioni e attenzioni, e tali nuove Percezioni e attenzioni dettero origine a importanti mutamenti culturali che trovano un rflesso nella documentazione archeologica.
I primi elementi reali del linguaggio verbale furono i suoni finali delle grida intenzionali, differenziati sulla base della loro intensità. Per esempio, un grido di allarme per significare un pericolo immediato doveva essere pronunciato con maggiore intensità, il che causava la modificazione del fonema finale. Una tigre vicina poteva essere annunciata con un «wahee! », mentre una tigre lontana poteva dar luogo a un grido di minore intensità, con il conseguente sviluppo di una desinenza diVersa, come «wahoo ». Furono quindi queste desinenze a diventare i primi modificatori, con i significati di «vicino» e «lontano ». E il passo successivo si ebbe quando queste desinenze «hee» e «hoo», poterono essere separate dal grido particolare che le aveva generate e applicate a un qualche altro grido con la stessa indicazione.
La cosa cruciale, qui, è che tale differenziazione di qualificatori vocali dovette precedere, e non seguire, l’invenzione dei nomi che essi modificavano. Questa fase del linguaggio verbale dovette persistere inoltre per molto tempo, finché tali modificatori non divennero stabili. La lentezza di questo sviluppo fu necessaria anche perché il repertorio-base del sistema di grida fosse conservato intatto per poter svolgere le sue funzioni intenzionali. Questo periodo dei modificatori duro forse sino al 40.000 a.C., quando troviamo nella documentazione archeologica amigdale e punte ritoccate.
La fase successiva potrebbe essere stata un periodo caratterizzato dall’introduzione di comandi: i modificatori, separati dalle grida che modificavano, poterono ora modificare le azioni stesse degli uomini. Soprattutto col sempre maggior ricorso degli uomini alla caccia in un clima molto freddo, la pressione selettiva a favore dello sviluppo di gruppi di cacciatori controllati da comandi vocali dev’essere stata enorme. E possiamo immaginare che l’invenzione di un modificatore col significato di «più aguzzo» come comando-istruzione possa aver fatto progredire la produzione di utensili di selce e d’osso, provocando un’eplosione di nuovi tipi di utensili dal 40.000 al 25.000 a.C.
Julian Jaynes, “Il crollo della mente bicamerale”, Adelphi pag. 166
I nomi
Una volta che una tribù ebbe un repertorio di modificatori e di comandi, poté allentarsi per la prima volta la necessità di mantenere l’integrità del vecchio sistema primitivo di grida, in modo da poter indicare i referenti dei modificatori o dei comandi. Se «wahee!» aveva significato un tempo un pericolo imminente, con una maggiore differenziazione d’intensità si poté forse avere ora un «wak ce!» per indicare l’approssimarsi di una tigre, o «wab ce!» per l’approssimarsi di un orso. Queste potrebbero essere state le prime proposizioni con un soggetto nominale e con un modificatore predicativo, e potrebbero essersi presentate in un’epoca fra il 25.000 e il 15.000 a.C.
Queste non sono speculazioni arbitrarie. Il passaggio dai modificatori ai comandi e, solo quando questi furono divenuti stabili, ai nomi non è arbitrario, né è interamente arbitraria la datazione. Come l’età dei modificatori coincide con la produzione di utensili molto superiori, così l’età dei nomi per designare gli animali coincide con l’inizio della raffigurazione di animali sulle pareti delle caverne o su oggetti di corno.
Nella fase successiva, che è in realtà un corollario della precedente, si ha lo sviluppo dei nomi di cose. Ed esattamente come i nomi per indicare esseri viventi dettero inizio alla raffigurazione di animali, così i nomi per indicare cose generarono nuove cose. Questo periodo dovrebbe corrispondere, secondo me, all’invenzione della ceramica, di orecchini, ornamenti, arponi e punte di frecce denticolati, questi ultimi di grandissima importanza nella diffusione della specie umana in climi più difficili. Dalla documentazione fossile sappiamo effettivamente che il cervello, in particolare il lobo frontale davanti al solco centrale, stava crescendo con una rapidità che ancora stupisce il moderno evoluzionista. E a quest’epoca, corrispondente forse alla cultura magdaleniana, si erano già sviluppate le aree cerebrali del linguaggio quali le conosciamo oggi.
A questo punto consideriamo un altro problema nell’origine degli dèi, l’origine delle allucinazioni uditive. Che qui ci sia un problema risulta dal fatto stesso dell’esistenza indubitabile delle allucinazioni uditive nel mondo contemporaneo, e dall’inferenza della loro esistenza nel periodo bicamerale. L’ipotesi più plausibile è che le allucinazioni verbali fossero un effetto collaterale della comprensione del linguaggio, effetto che si evolse per selezione naturale come metodo per il controllo del comportamento.
Consideriamo un uomo che abbia ricevuto da se stesso o dal suo capo l’ordine di costruire uno sbarramento per la pesca in un torrente molto a monte del sito del campo. Se egli non è cosciente, e non è quindi in grado di narratizzare la situazione e di mantenere in tal modo il suo analogo «io» in un tempo spazializzato con le sue conseguenze immaginate fino in fondo, come può farlo? Solo il linguaggio può mantenerlo impegnato, secondo me, in questo lungo lavoro destinato a durare tutto il pomeriggio. Un uomo del Pleistocene medio avrebbe dimenticato ciò che stava facendo. Ma un uomo con la parola aveva appunto il linguaggio a ricordargli il suo compito: egli poteva ripeterselo da solo, cosa che avrebbe richiesto però un tipo di volizione di cui non penso che egli fosse allora capace, oppure, come mi pare più probabile, se lo sentiva ripetere da un’allucinazione verbale «interna» che gli diceva che cosa fare.
A chi non avesse capito a fondo i capitoli precedenti una simile supposizione sembrerà estremamente strana e stiracchiata. Ma se si affronta direttamente e coscìenziosamente il problema di ricostruire lo sviluppo della forma mentale umana, tali supposizioni sono necessarie e importanti, anche se allo stato attuale non riusciamo a trovare alcun modo per confermarle con reperti concreti. Un comportamento fondato più strettamente su strutture aptiche (o, secondo una terminologia anteriore, più «istintivo ») non richiede stimolazioni ripetute. Invece le attività apprese, quando l’azione non conduca direttamente al fine gratificante, hanno bisogno di essere mantenute da qualcosa di esterno ad esse. Questo è quanto veniva fornito dalle allucinazioni verbali.
Similmente nel dare forma a un utensile, il comando verbale allucinatorio «più aguzzo» doveva consentire all’uomo primitivo, non cosciente, di continuare ad assolvere in solitudine il suo compito, oppure il comando «più fine », udito anch’esso in un’allucinazione verbale, doveva indurre l’individuo che pestava semi in un mortaio a continuare il suo lavoro fino a ottenere farina. Ritengo che proprio a questo punto nella storia umana il linguaggio articolato, sotto le pressioni selettive di compiti protratti nel tempo, abbia cominciato a localizzarsi in un emisfero cerebrale, lasciando l’altro emisfero libero per queste voci allucinatorie in grado di mantenere un tale comportamento.
Julian Jaynes, “Il crollo della mente bicamerale”, Adelphi pag. 170
L’età dei nomi propri
Quanto ho detto finora è stata un’esposizione anche troppo breve di ciò che dev’essere avvenuto nell’evoluzione del linguaggio. Ma prima che potessero esserci degli dèi si doveva compiere un altro passo avanti, l’invenzione di quel fenomeno sociale importantissimo che sono i nomi propri.
Con una certa sorpresa ci si rende conto che i nomi propri furono un’invenzione che dev’essersi verificata in un momento determinato dello sviluppo umano. Quando? Quali mutamenti poté introdurre questa invenzione nella cultura umana? Io ritengo che i nomi abbiano fatto la loro comparsa solo nel Mesolitico, fra il 10.000 e l’8000 a.C. circa. Questo fu il periodo dell’adattamento dell’uomo all’ambiente postglaciale, più caldo. La grande coltre dei ghiacci si è ritirata alla latitudine di Copenaghen e l’uomo ora si conforma a situazioni ambientali specifiche, alla caccia nelle prate
L ‘origine della civiltà 171 ne, alla vita nella foresta, alla raccolta di crostacei o allo sfruttamento delle risorse marine combinato con la caccia terrestre. Questo nuovo tipo di vita è caratterizzato da una stabilità molto maggiore della popolazione, rispetto alla necessaria mobilità dei gruppi di cacciatori che la precedettero, con la loro grande mortalità. Ora, date queste popolazioni più stabili, con rapporti sociali più fissi, una durata di vita maggiore e probabilmente un maggior numero di individui, i quali dovevano essere distinti l’uno dall’altro all’interno dei gruppi, non èdifficile vedere tanto il bisogno quanto la probabilità dell’estensione dei nomi comuni a nomi propri per designare i singoli individui.
Ora, un membro di una tribù, una volta dotato di un nome proprio, poteva in un certo senso essere ricreato in sua assenza. Era possibile pensare a « lui », usando qui la parola «pensare » nel senso speciale non conscio di inserire in strutture linguistiche. Benché in precedenza non siano mancate tombe di un qualche tipo, a volte abbastanza elaborate, questa è la prima età in cui troviamo tombe cerimoniali come usanza comune. Se pensiamo a qualche persona a noi vicina che sia morta, e poi supponiamo che tale persona non abbia un nome, su che cosa si fonderebbe il nostro dolore? Quanto a lungo potrebbe durare? In precedenza l’uomo, come gli altri primati, aveva abbandonato probabilmente i suoi morti là dove essi erano caduti, oppure li aveva nascosti alla vista con pietre, o in alcuni casi li aveva arrostiti e mangiati.” Ma come un nome per designare un animale rende il rapporto dell’uomo con tale animale molto più intenso, così è per il nome proprio di una persona. E quando la persona muore il suo nome rimane, e con esso il rapporto, quasi come quando essa era in vita: di qui le usanze funebri e il lutto. Per esempio gli abitanti degli insediamenti mesolitici portati alla luce nel Morbihan usavano seppellire i loro morti avvolti in mantelli di pelle chiusi con spille d’osso e a volte li incoronavano con corna di cervo e li proteggevano con lastre di pietra. Altre tombe di questo periodo presentano sepolture con piccole corone, o vari ornamenti, o fors’anche fiori in fosse scavate con cura, il tutto, secondo me, in conseguenza dell’invenzione dei nomi propri.
Ma con l’introduzione dei nomi propri si verifica un altro mutamento. Fino a quest’epoca le allucinazioni uditive erano state probabilmente anonime e non avevano rappresentato in alcun senso un’interazione sociale significativa. Una volta però che un’allucinazione specifica venga riconosciuta con un nome, come una voce originantesi da una persona particolare, ha luogo qualcosa di assai diverso. L’allucinazione è ora un’interazione sociale che viene ad assumere un ruolo molto maggiore nel comportamento individuale. E un altro problema qui è in che modo le voci allucinatorie venissero riconosciute, con chi venissero identificate e, nel caso che fossero molte, come venissero distinte l’una dall’altra. Qualche chiarimento su questi problemi ci viene dagli scritti autobiografici di pazienti schizofrenici, ma non è sufficiente per consentirci di sviluppare oltre l’argomentazione. Abbiamo un grande bisogno di ricerche specifiche in quest’area dell’esperienza schizofrenica per poter meglio capire l’uomo mesolitico.
L‘avvento dell’agricoltura
Ci troviamo ora alle soglie del periodo bicamerale, poiché è già disponibile il meccanismo di controllo sociale in grado di organizzare grandi popolazioni umane in una città. Tutti concordemente vedono nel passaggio da un’economia fondata sulla caccia e raccolta a un’economia produttrice di cibo il gigantesco passo avanti che rese possibile la civiltà. C’è però molto disaccordo circa le cause e i mezzi che lo determinarono.
Secondo la teoria tradizionale, quando, durante il Pleistocene superiore, i ghiacciai ricoprivano la maggior parte dell’Europa, l’intera area compresa fra la costa dell’Atlantico e i monti dello Zagros nell’Iran, ossia il Nordafrica e il Vicino Oriente, godette di una piovosità così abbondante da essere in effetti un enorme Eden lussureggiante di vita vegetale e in grado di dare nutrimento a una grande varietà di animali, fra cui l’uomo paleolitico. Ma la recessione della calotta glaciale polare spostò verso nord i venti dell’Atlantico apportatori di piogge, e l’intero Vicino Oriente divenne sempre più arido. Le piante commestibili selvatiche e la cacciagione su cui l’uomo aveva esercitato la sua attività predatoria non furono più sufficienti a consentire un modo di vita fondato sulla caccia e raccolta, cosicché molte tribù migrarono da quest’area verso l’Europa, mentre coloro che rimasero — per utilizzare le parole di Pumpelly, che dette origine con i risultati dei propri scavi a questa ipotesi —, «concentrandosi sulle oasi e costretti a conquistare nuovi mezzi di sussistenza, cominciarono a utilizzare le piante native; e fra queste l’uomo imparò a usare i semi delle diverse piante erbacee, coltivandole sulla terra arida e nelle paludi alle foci dei corsi d’acqua più larghi nel deserto».” E questa opinione è stata seguita da vari autori più recenti, fra cui Childe, oltre che da Toynbee, il quale definì questo presunto inaridimento del Vicino Oriente la «sfida fisica» a cui la civiltà agricola fu la risposta.
Reperti recenti dimostrano che non ci fu un inaridimento così esteso come è stato supposto, e che l’agricoltura non fu «imposta » economicamente a nessuno. Io ho attribuito un’importanza molto grande al linguaggio nello sviluppo della cultura umana nel Mesolitico e conserverei quest’impostazione anche qui. Come abbiamo visto nel capitolo III, il linguaggio consente alle metafore di cose di accrescere la percezione e l’attenzione, e di dare quindi nuovi nomi a cose che hanno acquistato una nuova importanza. Fu, secondo me, questa nuova forma mentale linguistica, in presenza, come nel Vicino Oriente, di un raggruppamento fortuito di piante idonee alla domesticazione, come il frumento selvatico e l’orzo selvatico — la cui distribuzione originaria coincide in parte con gli habitat molto più vasti degli animali sociali dell’Asia sud-occidentale, caprini, ovini, bovini e suini selvatici —, a dare origine all’agricoltura.